di MICHELA GIRARDI
Talentuosa, generosa, sensibile e caparbia, Valeria Pecora si sta facendo strada con umiltà e determinazione nel panorama culturale sardo e nazionale. Le donne e il loro mondo sempre al centro del suo lavoro. Conosciamola meglio.
Hai due romanzi all’attivo, “Le cose migliori” e “Mimma”. Con il secondo hai vinto sia il Premio Gramsci che il Premio Matteotti, facendoti conoscere in tutta Italia. Ci racconti in breve. Nel 2015 esce il mio romanzo d’esordio intitolato “Le cose migliori”, nel quale tratto tematiche a me care, soprattutto la malattia vissuta dal punto di vista di un familiare, dei cosiddetti caregiver, coloro che assistono le persone che amano e che io definisco i “donatori di cura”. La protagonista vive in maniera contrastante il rapporto con la madre, colpita dalla malattia di Parkinson in giovane età. Crescendo deve affrontare ostacoli e realtà difficili: una enorme delusione sentimentale, la precarietà lavorativa, la scelta di lasciare la propria terra di origine in cerca di un futuro migliore. Irene, sarà comunque in grado di riscattarsi e di trovare la sua strada. Con Mimma, vincitore del premio Antonio Gramsci nel 2017, racconto il mondo minerario di Montevecchio, un borgo realmente esistente e distante pochi chilometri dal paese in cui sono cresciuta, Arbus. La protagonista, Mimma, è figlia di un falegname e di una cernitrice, entrambi lavoratori nella miniera e nasce e vive in un periodo storico tra i più drammatici del secolo scorso: gli anni bui della dittatura fascista, della seconda guerra mondiale fino ad arrivare agli anni di piombo. Mimma sa scrivere una storia diversa rispetto a quella dei suoi genitori, impara a coltivare lo zafferano e riesce a studiare, affiancata dall’affetto di madrina Anna che le insegnerà ad amare la libertà. Mimma cade e si rialza, ribellandosi alle regole di un mondo chiuso e ostile. Con Mimma, pubblicato nel mese di maggio 2017, vinco il Premio Giacomo Matteotti, organizzato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e nell’ottobre del 2018 vado a ritirare questo prestigioso premio a Palazzo Chigi.
Entrambe le opere danno grandissimo spazio ai personaggi femminili, al loro mondo interiore e alla loro continua lotta contro un mondo che le vuole ai margini. Fai riferimento al passato ma alcune questioni di genere sono ancora apertissime. Partendo proprio da Mimma, ci regaleresti una panoramica della condizione femminile in Sardegna, dagli anni Quaranta ad oggi? In entrambi i miei romanzi ambientati in Sardegna, le donne rivestono un ruolo determinante. Rappresento i loro mondi esteriori e interiori, le relazioni, gli affetti, il desiderio di libertà. Irene, la protagonista del mio romanzo d’esordio “Le cose migliori” nasce nei primi anni Ottanta del Novecento e racconto il suo percorso di crescita che la porta a sperimentare sulla pelle il dramma – attuale – del precariato lavorativo che infetta anche la sfera sentimentale. Inoltre è presente il tema della cura e dell’accudimento che purtroppo continua a essere considerato un impegno da delegare “naturalmente” alle donne. Invece in “Mimma” faccio un salto indietro nel passato e la protagonista nasce in piena epoca fascista, in un contesto minerario – quello di Montevecchio – e attraversa gli accadimenti storici più dolorosi del secolo scorso come la dittatura, la seconda guerra mondiale, la Resistenza e la storia si conclude nel 1972. Descrivo la condizione femminile di quegli anni: la difficoltà per le donne di accedere all’istruzione, al lavoro e poter conquistare così l’indipendenza economica. Il tentativo di trasformarle in contenitori delle scelte altrui, pronte a sopportare i sacrifici, votate al martirio. Le donne che affiorano tra le pagine delle mie opere non sono così. Sbagliano, detestano l’etichetta di angelo del focolare, non vogliono vedersi e sentirsi limitate al solo ruolo di madre, moglie e di figlia ma rivendicano il diritto di essere se stesse, individui autonomi, e poi tutto il resto. Sembrano temi vecchi e lontani e invece ritengo siano più attuali che mai. Dagli anni Quaranta a oggi le donne hanno lottato e continuano a farlo per ottenere le stesse cose: libertà, parità, emancipazione e oggi questa richiesta non è solo economica e sentimentale ma anche e soprattutto culturale. Emancipazione dagli stereotipi e dai pregiudizi che continuano a fare male. Le donne avanzano e questo, per molti, è spaventoso. La bella notizia è che questa “avanzata” non si fermerà.
I personaggi femminili che fai vivere tra le pagine sono tutti molto forti ma anche diversi tra loro. Tu in quale delle donne tratteggiate ti rispecchi? Che donna è Valeria oggi, a 38 anni? Io mi rispecchio un po’ in tutti i miei personaggi femminili. Creo soprattutto le donne che amo e che avrei voluto essere. Prendo spunto per i personaggi dalle donne vere che mi hanno ispirata nella vita: amiche, colleghe di lavoro, le mie nonne e zie, mia madre, le mie sorelle. C’è tanto di me nella figura di Irene, soprattutto nel suo rapporto con la madre colpita dalla malattia di Parkinson e c’è molto di me nella figura di Mimma che ha bisogno di sentire, di toccare l’amore. La carnalità di Mimma. La capacità di rispettare la natura da parte di Anna, madrina di Mimma. Ecco questi lati fanno parte di me. Valeria a quasi quarant’anni è una donna che ama, che sogna, che vive ogni giorno della sua vita come se fosse un regalo prezioso del signor Tempo. Lui decide, lui risolve, lui scombina. Lui concede. E io voglio scrivere i giorni più belli della mia vita per poterli rileggere un giorno senza rimpianti.
Quando e perché hai iniziato a scrivere? Quali sono i messaggi rivolti alle donne che più di tutti desideri veicolare con la scrittura? La lettura. Leggevo e leggo in maniera vorace e appassionata, insaziabile: è cominciato tutto così. Dal grande amore per i libri. Non possono esistere gli scrittori che non leggono. Ho iniziato a scrivere nel 2015 per esorcizzare un grande dolore, quello legato alla malattia di Parkinson che ha colpito mia madre quando avevo solo sette anni. In realtà anche da adolescente amavo scrivere i miei pensieri e le mie riflessioni sul diario e nei temi di italiano, al liceo, ero particolarmente brava. Vorrei comunicare con la mia scrittura la sete di libertà, la gratitudine che provo. Dare voce alla speranza che sento strisciare, infilarsi ovunque anche quando siamo ciechi. L’amore nei confronti dell’umanità. Il diritto di sbagliare, di cadere, di arrenderci. Di non scappare dal dolore. Di guardare il mondo anche restando seduti. Esprimere tutte le sfumature del mondo e dell’essere umano: lo squallore, lo schifo, la paura, il coraggio, la bellezza. Questo mi piacerebbe comunicare.
Sei stata sostenuta nel tuo percorso di scrittrice? Da chi? Sono sempre stata sostenuta con grande convinzione dalla mia famiglia, dalle mie amiche, da un’intera comunità – quella del mio paese, Arbus – e in generale dalla Sardegna. I lettori sardi amano molto gli scrittori sardi.
Nell’esercizio del tuo mestiere di scrittrice hai mai percepito diffidenza da parte del mondo maschile? Ti sei sempre sentita “presa sul serio”? Che reazioni hanno avuto donne e uomini al tuo romanzo? I miei romanzi sono stati accolti positivamente sia dai lettori che dalle lettrici. All’inizio pensavo sarebbero piaciuti di più alle donne, soprattutto Mimma, dal momento che la protagonista e i personaggi principali sono femminili ma in realtà e a sorpresa, è stato letto e apprezzato anche dai lettori e ho ricevuto un numero maggiore di messaggi da parte degli uomini. Con questo romanzo ho vinto dei premi letterari legati a due personalità importantissime come Antonio Gramsci e Giacomo Matteotti e questo ha ben disposto il pubblico che subito sapeva che davanti non avrebbe trovato un romanzo rosa. Secondo me questo ha influito tanto. Non so se avrebbe attirato la stessa attenzione da parte del pubblico maschile senza aver ottenuto questi riconoscimenti. Purtroppo questo è uno stereotipo ancora abbastanza diffuso tra gli uomini (scrittori e lettori), naturalmente sono portati a pensare che le donne siano capaci o brave a scrivere solo romanzi romance.
In “Mimma” si parla tanto di rapporti familiari. Lo fai con estrema grazia ma allo stesso tempo anche in modo asciutto. Non fai sconti. In particolare ricorre la figura di Madre, come mai? E perché hai sostenuto che “nella vita sarebbe bello poter scegliere più madri?”. Pensi che la maternità oggi sia ancora un traguardo da tagliare perché la società dalle donne si aspetta questo? Ho un rapporto particolare, viscerale, diverso con mia madre. Fin da piccola ho dovuto fare i conti con una maternità rovesciata, una donna che improvvisamente si è ammalata seriamente e ha avuto bisogno di cure, di aiuto, di sostegno sia morale che fisico. Così mia madre è stato il primo vuoto che ho sperimentato e dal quel vuoto è nato il desiderio di ridisegnare il mio rapporto con lei e di maturare una nuova consapevolezza: si è madri e figlie anche se tua madre non può accompagnarti a fare spese, camminare con te, prepararti una torta. Non potevo permettere alla malattia di portarci via tutto. Ho costruito argini. Ho inventato un nuovo mondo per me e per lei. Una lingua, un codice tutto nostro. Lei ama cantare e recitare le poesie. Questa è la cosa che facciamo insieme. Leggiamo e cantiamo. Parliamo. Guardiamo il mondo anche stando sedute. Certo mi piacerebbe poter fare molto altro con lei ma l’amore che ci diamo anche solo attraverso le parole è qualcosa che mi nutre, che risolleva, che impedisce al vuoto di risucchiarmi. Per questo penso che sia bello avere più madri. Quello che non posso fare con mia madre lo cerco nei gesti delle altre donne: le passeggiate, i pop corn, una fetta di torta appena sfornata, un piatto di lasagne cucinato in casa. Le madri delle mie amiche, le donne dell’età di mia madre con cui sono diventata amica. Le mie zie. Loro diventano un po’ le altre madri. Proprio perché non ho vissuto una maternità tradizionale dal punto di vista di una figlia, non posso avere un’idea tradizionale su questa scelta. Non è vero che si è sempre madri o che naturalmente, tutte, abbiamo questo istinto. Si può e si deve scegliere, nel pieno rispetto e in piena libertà, di essere o di non essere madri. Ancora ci sono tanti pregiudizi nei confronti delle donne che decidono di non avere figli soprattutto quando questa scelta è libera e non motivata, per esempio, da impedimenti economici o motivi di salute. A me terrorizza il concetto di dover fare figli per dare un senso alla propria esistenza. I figli si dovrebbero mettere al mondo perché siamo pieni, non perché ci sentiamo vuoti o perché da soli non abbiamo senso e valore. Cosa imparerebbe un figlio se pensassimo così? Dovrebbe vivere per renderci felici. E il suo diritto alla felicità dove andrebbe a finire?
Oltre che una scrittrice sei anche una storica dell’arte e lavori nell’Ufficio Turistico del Comune di Cagliari. Motivo per il quale conosci molto bene la storia della nostra terra e del nostro popolo. La scrittura e l’arte e la ricerca della Bellezza a tuo avviso salveranno il mondo? La bellezza, l’arte, la natura: sono convinta che ripartiremo proprio grazie a loro. Rinasceremo dopo ogni crisi, dopo ogni distruzione. Un grande insegnamento me lo diedero anni fa un gruppo di studentesse provenienti da L’Aquila che accompagnai in Inghilterra durante un soggiorno studio estivo. Mi spiegarono che per loro era difficilissimo tornare alla normalità dopo il terremoto che devastò la città. Le loro case si salvarono ma il centro storico no. Le chiese, le piazze, tutti i posti dove erano cresciute non esistevano più. Crollati, erano irriconoscibili. All’improvviso non avevano più riferimenti. Tra le crepe era precipitata la memoria, i riferimenti che le riportavano ai luoghi dove avevano conosciuto la felicità. Fu una lezione straordinaria: mi fecero riscoprire il legame forte, a cui a volte non diamo importanza, con i paesaggi, le strade che siamo abituate a percorrere, i paesi che ci hanno viste crescere.
“Le parole sono voce del verbo amare” dici spesso. Cosa intendi? Le parole sono voce del verbo amare perché per me hanno senso solo se sono accompagnate dalle azioni, se le pronuncia il cuore e non la bocca. Le parole sono il mio mondo. Le parole tengono in vita l’amore quando c’è, lo custodiscono, lo proteggono. Lo accendono. A volte lo distruggono. Mia madre mi chiedeva sempre quando ero bambina: “Perché scrivi ti voglio bene e non riesci a dirlo?” e io rispondevo sempre: “perché le parole scritte durano di più”.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro? Continuerai a scrivere di donne, ci sono altri romanzi nel cassetto? Come ti vedi tra dieci anni? I miei progetti sono: continuare a scrivere, viaggiare di più, leggere. Continuerò a scrivere di donne e di uomini, con attenzione e una passione particolare per le prime. C’è un romanzo inedito intitolato “L’estate del coraggio” che è arrivato in finale nel concorso letterario “Premio Residenze Gregoriane”, organizzato a Tivoli. Al momento sto scrivendo un nuovo romanzo dedicato a una donna speciale, una storia di incredibile coraggio, emotivamente potente e coinvolgente. Una storia che quando vedrà la luce ovvero la pubblicazione sarà un dono per tutti. Tra dieci anni mi vedo sempre più curiosa, più consapevole del valore del tempo. Una quasi cinquantenne in pace con se stessa, almeno lo spero e ancora più affamata di bellezza. Intorno a me vedo una casa, più di una famiglia, amici veri e ovviamente una montagna di libri.
Valeria Pecora: amica, scrittrice, donna piena di luce ❤️
Meravigliosa, sono onorata di aver conosciuto una donna che mi ha commosso e arricchito di emozioni. Aspetto con trepidazione il suo prossimo dono. 💗
Ma che bella intervista a Valeria
Noi tutte e tutti facciamo il tifo per te, ti stimiamo molto Valeria, animo nobile e talentuoso come poche❤️
Bella persona e grande scrittrice
una scrittrice e una donna meravigliosa. E molto affine a me, anche nell’intreccio di storie personali.
Una donna davvero speciale