di MAURO PILI
Se amate l’azzardo fatelo pure. Entrate, però, in punta di piedi. Lasciate fuori da quell’arco d’ingresso la convinzione che il paradiso non esista.
Varcate la soglia in silenzio, giusto per auscultare il respiro autentico di questa terra antica, forse la più antica tra quelle emerse.
Immergetevi nella Sardegna più segreta e selvaggia, quella più profonda mai toccata dall’uomo, dalle viscere di Lucifero all’alba di Piscinas.
Dalle strade a scorrimento lento ai tornanti per Ingurtosu, nella valle de “Is Animas”.
Inutile portarvi una qualsiasi bussola, la terra di piombo e zinco vi stravolgerà ogni certezza. E dopo centinaia di tornanti a due passi dal cielo comincerete a pensare di esservi persi in un paradiso incontaminato, dove il verde non è il colore dominante. E’ il colore.
Sfaccettature di verde irriproducibili, cromatismi che cambiano ogni istante del giorno e della notte. Aprite pure i finestrini, ma procedete a passo lento, da ogni angolo spuntano alieni travestiti da eleganti cervi, maestosi e proprietari senza testamento di quest’orizzonte infinito.
Abbiate l’accortezza di respirare con parsimonia, qui l’ossigeno è inesauribile ma non potete passare in un batter d’occhio dall’aria intrisa di Saras a quella vergine e intatta di questo angolo segreto di una Sardegna che non c’è più.
Respirate con il contagocce. Le miscele, qui, sono create come nessuno poteva pianificarle nemmeno nel più sofisticato laboratorio di profumi.
Lentischio schietto e deciso, mirto dolce e rotondo, ginepro austero e imperioso. Mai macchia ma sempre più distesa, infinita e intonsa. Gli occhi la traguardano come un’onda increspata di un oceano sterminato, che appare senza confini.
Perdetevi pure. Non avete certo il pericolo di essere ritrovati subito. Il pomeriggio è inoltrato e da stamane nemmeno un essere umano si è affacciato all’orizzonte.
L’incedere cauto e intangibile all’interno di quest’oasi ai più nascosta e segreta accresce il percettibile ingresso in un’era geologica ormai tramontata.
Era geologica e non tempo, non anni ma secoli, perché il lasso temporale è quello delle tumultuose capriole della terra, indescrivibili acrobazie del Creato che rivoltandosi in lungo e in largo hanno riempito questa terra di blenda e galena, piombo, zinco e argento.
Qui, cuore e anima della più antica civiltà delle miniere, un’apocalisse ha messo in fuga chiunque. Ed oggi l’unico sguardo inquieto e curioso è quello delle arrampicatrici indefesse che dominano le scoscese viscere della terra ferita a colpi di fornelli e gallerie.
Entrate voi che ignorate la storia delle miniere! Ed entrate anche voi che ne avete vagamente sentito parlare. E ritornateci anche se siete di casa. Fate in fretta, però. Qui il tempo, quello dei mortali, sta consumando inesorabilmente quell’indissolubile connubio tra mare, montagna e miniere.
Il tempo qui corrode tutto, l’ignavia è come la ruggine della storia, la gramigna dell’ignoranza che avanza senza tregua alcuna.
Accorrete, Montevecchio e Ingurtosu, tra poco non ci saranno più.
L’inciviltà dell’uomo moderno ha consumato un fiume di denaro per disperderlo nei rivoli della povertà culturale e scientifica, architettonica e paesaggistica.
La secolare storia di quell’antica civiltà mineraria sta cedendo il passo.
A Naracauli, nella porta d’ingresso di Ingurtosu, la laveria mineraria, esempio di rara perizia architettonica e tecnologica è franata con l’incedere degli anni.
Tecnologia e ricerca ora affrontano il rigurgito del terreno che sprofonda e si accinge a cancellare per sempre quel mondo segreto e nascosto.
Un jet militare a bassa quota sorvola il tracciato di quei dodici chilometri di filone piombo-zincifero che ha segnato secoli di estrazione mineraria. Qui le strade sono impercorribili e rimaste ferme nel tempo per non disturbare gli avieri che bombardano la costa, tra Capo Frasca e la costa verde.
Crolla tutto. Crollano i villaggi, crollano gli alberghi dei minatori, franano i ponti, le strade non accettano più nemmeno i suv e i corsi d’acqua hanno riconquistato i loro spazi.
E’ salvo il Castello d’Ingurtosu, ma solo le ragnatele del tempo passato possono goderselo. Fogge regali, merletti ricamati, pietra inossidabile al tempo.
Tachicardia d’avventura, che sbuca nelle immense e ciclopiche dune di sabbia. A ridosso del mare, stranamente quieto e parsimonioso. Infinito come quel paesaggio baciato ogni giorno dall’alba e dal tramonto.
Davanti a noi Piscinas, Le Dune, un oceano di sabbia incontaminata contesa tra pochi turisti d’estate e qualche galeotto della colonia penale più esclusiva del mondo.
Del resto solo in Sardegna si poteva pensare di occupare migliaia di ettari per ospitare delinquenti in un’oasi che, a due passi dal confine penale, è quotata 5 stelle lusso.
Il viottolo d’acqua è rosso. Carico di metalli pesanti da farsi d’oro. Lo si può con un pizzico d’azzardo oltrepassare per inerpicarsi verso il secondo gioiello segreto di questo intreccio esclusivo tra mare, cielo, terra e profondità.
L’incedere è da infarto. Siamo a Montevecchio. Nel sottofondo il ritmo delle sirene che non suonano più. I colpi efferati rivolti alla terra sono murati. Nelle gallerie non si può entrare. Esce solo un fiume d’acqua. Ovunque. D’estate e d’inverno.
Un sussulto d’accoglienza è morto sul nascere. Il cartello che si staglia all’ingresso è più un invito ad andar via che a trattenersi. Sbarra militare per segnalare che lì non si passa.
E del resto quel villaggio di Piccalinna, con le sue fogge architettoniche pregiate e fiabesche, non deve morire sotto lo sguardo silente di profani visitatori. Meglio il silenzio dell’ignavia e della negligenza.
Nel 1994 quando osai dire che quell’immenso patrimonio di gallerie, discenderie, trenini, sciovie e funivie sarebbe stata la più grande disneyland mineraria al mondo cercarono un sindaco e due medici per un ricovero coatto. La fortuna volle che in quel momento il sindaco fossi io. I medici erano già pronti.
Oggi traguardo mestamente questa storia immensa e infinita che scompare, mattone dopo mattone, villaggio dopo villaggio, uomo dopo uomo.
Scompaiono senza colpo ferire diecimila posti letto, posizionati laddove solo le aquile osavano arrivare. Avvolti oggi da un verde universale che ha accolto e fatto proprio quel segno dei tempi.
E così quelle immense discariche, figlie di quella flottazione indispensabile per separare i minerali, per estrarre il piombo e lo zinco, si consumano senza tregua rilasciando carichi inquinanti incalcolabili.
Eppure da anni spiego che lì dentro, in quelle dighe di sterili, ci sono metalli sufficienti per far rinascere quel sogno di un paradiso dove l’ambiente sa coniugarsi con la grande civiltà mineraria.
Ma a nessuno importa se le stime dicono che si possono estrarre oltre tre miliardi di euro di piombo e zinco. Poco importa se si potrebbe risanare il territorio e usare quei guadagni per aspirare alla rinascita.
Non importa. Fate in fretta. Correte a scoprire quel che resta di quella civiltà. Impressionate quelle immagini dove volete. Celluloide o icloud, fate quel che credete. Raccontate che tra Ingurtosu e Montevecchio, nella costa tra Arbus e Guspini, una volta c’era la segreta e nascosta civiltà dei minatori.
C’era anche tanta ricchezza, c’era. C’erano migliaia di posti letto, c’erano. C’era il fascino dell’avventura da vender a caro prezzo, in un paradiso esclusivo, c’era.
Non vi resta che andare a scoprire quel che resta.
A passo d’uomo, mi raccomando, i cervi sono rimasti lì a presidio di quell’era che lentamente sta scivolando nella storia dell’ignavia dei popoli, incapaci di difendere e custodire le proprie antiche e affascinanti ricchezze. Quelle della storia, della natura, della propria identità.
Benvenuti a Ingurtosu e Montevecchio, crocevia segreto e inaccessibile della Sardegna da salvare.
Una terra stupenda