di ALESSANDRA GUIGONI
Nell’ebook che ho realizzato/pubblicato grazie all’ISRE (Istituto Superiore Regionale Etnografico della Sardegna) di Nuoro, ho sintetizzato il mio sentire nell’Introduzione, che vi propongo interamente. Nell’ebook troverete 350 ricette di cui cinquanta ricette “storiche”, ossia scritte tra la prima metà del Settecento e la prima metà del Novecento. In vendita nel portale SARIBS.IT
La ricerca Cibo identitario della Sardegna -Territori, tipicità e tradizionalità in cucina- Ricette e Menu è stata condotta sotto l’egida dell’ISRE, Istituto Superiore Regionale Etnografico di Nuoro, e fortemente voluta dal suo Presidente, l’architetto Giuseppe Matteo Pirisi.
Il prodotto della ricerca è un Ricettario che armonizza la ricerca storica di fonti scritte – sul patrimonio gastronomico sardo – con la ricerca etnografica.
Le fonti scritte consultate sono state di varia natura, funzionali all’inquadramento concettuale degli ingredienti e delle ricette, per dare profondità di campo e spessore storico.
È stata inoltre svolta una ricerca in alcuni importanti ricettari nazionali del XIX secolo sino alla prima metà del XX secolo, il cui esito è confluito nella sezione Ricette storiche.
Per la seconda metà del XX secolo sono stati consultati molti ricettari sardi, numerosi a partire dagli anni ’80 ad oggi. Dal punto di vista etnografico sono state rilevate centinaia di ricette in tutta l’Isola, in località ritenute significative dal punto di vista culinario. A fine ricerca molte ricette sono state ritenute semplici varianti di un patrimonio che appare condiviso, nonostante alcune peculiarità legate ai diversi territori presi in esame, per cui il numero è stato progressivamente ridotto a circa 300, più una cinquantina di “ricette storiche”.
Per l’areale corrispondente alla “vecchia” provincia di Nuoro Serafina Tandeddu (indicata con la sigla S.T. nelle ricette) mi ha supportato nella ricerca storica ed etnografica.
Ogni ricetta, denominata in sardo e in italiano, è descritta secondo ingredienti e procedimento e brevemente commentata, ove possibile.
L’esito è un ricettario con 20 menu territoriali, che non ha la pretesa di essere esaustivo ma di costituire un diverso punto di partenza per “leggere” la gastronomia sarda, di offrire uno sguardo nuovo sulla cucina sarda, sui suoi saperi, le sue pratiche, l’ideologia ed il lessico.
La ricetta è un procedimento, la cui riuscita, che dà come risultato la pietanza finita, dipende dalla perfetta esecuzione di ciò che è scritto (o trasmesso oralmente, più spesso), che consente la trasformazione degli ingredienti in qualcosa di nuovo e di diverso: fa anche parte dei beni immateriali la cui proprietà intellettuale appartiene spesso ad un’intera comunità.
Spesso l’unico lascito culturale di una donna o di un gruppo sociale femminile, in passato, è stato una o più ricette, solitamente tramandate solo oralmente. La ricetta è solo in apparenza un manufatto umile, e cela tra le proprie pieghe la mentalità, la creatività e la perizia di chi l’ha escogitata, o variata o rifatta tale e quale.
Quella che potrei chiamare “questione della cucina sarda” non è un tema secondario. Pur avendo materie prime straordinarie e pietanze uniche e caratteristiche, identitarie, la “cucina sarda” ha iniziato ad essere autenticamente conosciuta solo in pieno Novecento.
Nel 1977, il 24 dicembre, lo storico Manlio Brigaglia faceva il punto in un momento storico estremamente delicato, di passaggio, tra lo stile alimentare “degli antenati” e la malia della modernità e del turismo incipiente, in un articolo edito sull’Unione sarda e profeticamente intitolato “Alla ricerca dei cibi d’una volta”.
Si trattava della recensione all’appena pubblicato libro della studiosa locale ogliastrina Marilena Cannas che forse per la prima volta, in modo organico, portava alla ribalta ricette casalinghe, prosaiche ed essenziali (che “povere” non mi piace, è un termine abusato, anche se in alcuni casi azzeccato).
Un libro che piaceva a Giulio Angioni, uno di quelli “che non mi sconsigliò” usando una sua parafrasi, quando iniziai ad occuparmi molto trepidamente, essendo continentale, di cibo in Sardegna, nel 1997. Manlio Brigaglia rimarcava il divario con la cucina praticata nei ristoranti, con crescente successo, sia per l’apertura di “ristoranti sardi” nel continente, nelle città di immigrazione dei sardi, sia per la presenza di un turismo interessato alla tipicità, una moda che chiamava “cucina sarda per continentali”, con certe pietanze ingentilite e “arricchite”, sintetizzo al massimo, per incontrare i palati degli ospiti.
Poi Brigaglia nel suo pezzo elenca una serie di pietanze che negli anni ’70 sembravano sull’orlo dell’olocausto e che invece si sono miracolosamente salvate, anzi al giorno d’oggi forse, sono più diffuse che 20 anni fa; penso ad esempio, al casu axedu, che grazie alla confezione in atmosfera protetta arriva in città, o ai culurgiones ogliastrini, che negli anni ’90 si potevano gustare solo recandosi a Lanusei e dintorni e oggi sono un IGP. «Chi fa più la minestra di viscidu che è un formaggio secco acido salato? O quella di casu axedu dove il formaggio acido è invece fresco e si scioglie come una pasta? [..] O la minestra di merca nuorese? […] Né meno difficili a trovare sono, forse, la minestra giornaliera dei contadini della Trexenta […] E la minestra di finocchietti selvatici per la quale come minimo occorreranno i finocchietti e che siano selvatici […] Tolta la fregula che si può comprare ancora nei negozi e i malloreddus (ma chi li fa più a mano?) Ecco piatti antichi come maccarrones de orgiu, gli gnocchi d’orzo conditi con la ricotta secca […] l’ambulau […] ed ecco 100 piatti che nascono dall’utilizzazione del pane cotto per diventare la base di un primo piatto […] come la zuppa gallurese […] La cacciagione: è forse il piatto che diventa sempre più raro. Anche a Cagliari sono scomparsi i pilloni de taccula, le” grive”, e chi può mangiare il cinghiale a “carraxu” cioè cotto sottoterra? Delle pernici non parliamone neppure […] I pesci sono ancora uno dei piatti chiave della cucina sarda turistica ed effettivamente, anche col rischio sempre presente di vedersi rifilare del pesce congelato, se c’è un luogo d’Italia dove ancora può capitare la fortuna di mangiare del pesce fresco quella è la Sardegna […] In coda al menu poi la grande fluviale cascata dei dolci sardi veramente centinaia di specie diverse, particolari, differenti paese per paese […] pane ‘e sapa, pappai biancu, arrubiolus, trigu cottu, opinus, pistoccheddus, sebadas, pardula, tortillas, culurgiones de mazza ‘e mendula, bianchittus, pirichittos, papassinos, panixedda, aranciata nuorese, marigosus, gesminus, gattò, sospirus, candelaus, pastissus, gueffus, caschettas, mustazzolus, zippulas. Non spieghiamo di che cosa si tratta: bastano i nomi, da soli, con la loro fantasia, a suscitare ricordi e sospirose nostalgie».
Il revival del cibo, in tutte le sue forme, soprattutto quelle tese a ricercare prodotti “rari”, “perduti”, in “pericolo”, ha portato a rivalutare e far conoscere cibi che sino a 40 anni fa erano dati per scontati, anzi erano dati per spacciati, e di cui ci si voleva anche sbarazzare a volte, come dei pani integrali, dei legumi e delle zuppe di pane, spia di un passato di miseria e fame che coinvolgeva le memorie e le coscienze dell’Italia tutta.
L’avvento della grande distribuzione organizzata e dell’agroindustria, prima salutata come fattore di modernizzazione e sviluppo, poi guardata finalmente, ma forse tardivamente, con crescente spirito critico, hanno fatto il resto. Del resto, si dice, mangiare è anche un atto politico.
Al giorno d’oggi medici geriatri e nutrizionisti di tutto il mondo giungono in alcuni paesi d’Ogliastra, una delle cinque Blue Zone mondiali, per studiare l’alimentazione “povera” dei centenari locali, un’alimentazione che in gioventù fu parca, e fu incentrata su pane fatto in casa, zuppe e minestre.
Tornando a ritroso, nel 1989, Fernando Pilia, storico, giornalista e cultore della materia con perspicacia scriveva: «Nel quadro del recupero e del rilancio dei diversi e suggestivi elementi della civiltà della Sardegna, qualcosa finalmente si comincia a fare anche nel campo della gastronomia tradizionale» (Pilia 1989).
E più avanti continuava con circospezione: «Per questo mi pare che si possa legittimamente parlare di cucina sarda, anche perché sono evidenti fattori geografici storici ed economici che hanno determinato in maniera precisa il nascere e l’affermarsi di un arte culinaria sarda, in una terra isolata e distante dal continente che ha avuto uno sviluppo civile sociale differenziato e che ha sempre posto alla base della vita le due attività prevalenti dell’agricoltura e della pastorizia».
Pilia rimarcava il ruolo del turismo nei cambiamenti in atto: «In questi ultimi anni, con l’affermarsi del fenomeno turistico, c’è stata la rivelazione della cucina tradizionale della Sardegna e così oggi è possibile gustare i cibi regionali in tutta l’area isolana nei locali decantati dalla pubblicità di grido e nei più modesti ristoranti sparsi un po’ dovunque».
E concludeva: «Per apprezzare in pieno il valore della gastronomia sarda forse sarebbe meglio che il turista o viaggiatore o lo studioso curioso non si fermasse alle prime impressioni registrate negli esclusivi e sofisticati “ghetti di lusso” ma si recasse nell’ambiente più vero originale: tra i pastori, i pescatori, i contadini e le massaie paesane vale a dire tra i reali depositari dei segreti gastronomici tramandati con un’abilità sconcertante» (ibidem).
Pilia si rendeva conto -a nostro parere- di essere sulla soglia di un altro cambiamento epocale, dopo quello avvenuto tra gli anni ’60 e ’70, rilevato dal succitato Manlio Brigaglia, relativo ai consumi e ai costumi alimentari: la nascita dell’interesse del pubblico, sardo e non, verso la gastronomia e – insomma – l’arte culinaria locale, che nasceva dal confronto tra un “noi” e “loro” e dalla presa di distanza dal proprio passato, possibile in virtù dei cambiamenti socio-economici in atto sull’isola.
Gli studi sulla cultura alimentare sarda sino a quel momento erano stati molto numerosi e importanti, condotti da una vera e propria scuola antropologica sarda che ha aveva scelto alcuni manufatti, come il pane, quale protagonista delle proprie indagini e speculazioni.
Le ricette invece, appartenevano ed appartengono ad un dominio diverso, della manualistica popolare; si ritiene – erroneamente – che siano di universale e immediata comprensione. Di sicuro sono di universale interesse per la loro natura: sembrano immediatamente intellegibili, oggettive (in apparenza) e molto pratiche: servono a fare qualcosa, e in un ambito tradizionalmente umile, quotidiano, domestico e femminile: la cucina.
Così si spiega anche il fenomeno dell’enorme successo del cibo (chiamato quasi sempre, con vezzo, food) ormai in auge da una decina di anni: il cibo filmato, fotografato, raccontato da ogni punto di vista ed in ogni modo e soprattutto ridotto a ricetta.
In effetti a partire dagli anni ’90 ad oggi i libri sulle ricette sarde (e le rubriche sui giornali, le trasmissioni tv eccetera) si moltiplicano enormemente, spesso con errori, imprecisioni, a volte con un copia-incolla frenetico che Internet ha amplificato enormemente cosi da trascinare sino ai giorni nostri refusi o approssimazioni.
Tutti questi elementi e queste criticità ci sembrano utili per inquadrare la difficoltà nel ricostruire un ricettario coerente, autentico, equilibrato e senza troppe omissioni e refusi, che pure ci sono, dato l’approccio innovativo alla materia.
La maggior parte delle ricette raccolte sono anonime per il carattere riservato delle informatrici e degli informatori, che ringrazio caldamente per la loro disponibilità; alcune ricette sono firmate da gastronomi esperti che hanno accettato di buon grado di partecipare con un loro contributo, su nostro invito. Infine alcune ricette, ove indicato, sono state desunte dalle ricette sarde curate dall’Accademia italiana della Cucina.
Le ricette sono proposte cosi come gli informatori le hanno date, la genericità o la mancanza di dosi o di passaggi durante il procedimento è dovuta al loro riserbo.
Sono lieta di aver provato a raccontare la cultura gastronomica sarda e a recuperare con la ricerca elementi, sapori e storie che al giorno d’oggi sembrano nuovamente sul punto di un altro mutamento epocale, il cui esito per ora è incerto: sicuramente qualcosa andrà perduto, qualcosa rimarrà, qualcosa cambierà, forse per sempre, come è sempre successo con le ricette, i sapori e la cultura che esprimono.
A casa mia siamo mooooolto identitaria allora!!!