di ROBERTA CARBONI
Nella Sardegna dell’Ottocento e del primo Novecento, quando la società industriale non aveva ancora soppiantato quella agro-pastorale e contadina, il Natale costituiva un importante e significativo momento di coesione sociale durante il quale si aveva modo di ripristinare l’unità del nucleo familiare, spesso temporaneamente incrinata dai vincoli derivanti dalla transumanza maschile nei pascoli o in campagna.
Il Natale in Sardegna non è solo una festa: è LA festa. Ma più che ereditare il valore simbolico della nascita di Gesù Cristo come momento di gioia e speranza, la Sardegna tribale, pagana e mistica eredita il potente bagaglio magico-religioso del Solstizio d’Inverno, che condiziona i cicli produttivi e gli equilibri della natura.
“Sa Paschixedda”, in opposizione a “Sa Pasca Manna”, ossia la Pasqua, è una festa speciale che significa aggregazione familiare, condivisione e soprattutto tradizione.
La tradizione natalizia sarda si esprime in tanti aspetti della cultura materiale e immateriale, che vanno dal cibo alle leggende popolari ai rituali religiosi sempre rigorosamente mitigati da un affascinante residuo di paganesimo.
Nei giorni precedenti al Natale i pastori rientravano a casa dopo la lunga transumanza e ad attenderli c’erano le mogli e i figli; questi ultimi, spesso, cresciuti troppo in fretta e troppo a lungo senza la presenza del padre. Eppure quel ritorno rappresentava un momento fondamentale non solo per la famiglia, ma per l’intera comunità che, nella notte della vigilia, si riuniva nella “nott’e xena”. Il tepore e la luce del focolare domestico, uniti ai racconti e alle leggende che i più anziani erano soliti raccontare per intrattenere i bambini, animavano un pasto frugale consumato per il puro piacere di celebrare il ritorno. La vera abbondanza del pasto era quella del 25. Dall’uccisione del maiale una famiglia campava non solo durante i giorni delle feste, ma talvolta per quasi un anno intero. L’uccisione di un maiale, da sempre, era un momento catartico che scandiva ricorrenze ed eventi particolari nella vita di una comunità o di un villaggio.
Nella sua opera “Miele Amaro”, Salvatore Cambosu scrive: “Certo, ci vuole proprio un villaggio perchè un bambino come Gesù possa nascere ogni anno per la prima volta. In città non c’è una stalla vera con l’asino vero e il bue. Non si ode belato, e neppure il grido atroce del porco sacrificato […] In città è perfino tempo perso andare cercando una cucina nel cui cuore nero sbocci il fiore rosso della fiamma del ceppo”.
Il focolare, dunque, già fulcro della vita domestica, in occasione del Natale assumeva un valore simbolico ancora maggiore, che diventava quasi un rituale. Era consuetudine assai diffusa in molte località della Sardegna imbiancare le pareti annerite del camino in modo che fosse pronto per la Vigilia. La sera del 24 Dicembre il fuoco veniva attizzato su un grande ceppo di legno precedentemente conservato per l’occasione, detto “su truncu e’xena”, che doveva restare acceso per tutte le feste, fino all’Epifania. Si doveva avere cura di non farlo spegnere ma anche di non farlo bruciare fino alla fine, nella convinzione che questa pratica rituale avrebbe portato fortuna economica e salute alla famiglia.
Nel caso delle famiglie più povere che non potevano permettersi un abbondante pranzo, la comunità mostrava la sua generosità offrendo la cosiddetta “mandada”: una scorta di cibo che difficilmente si consumava in grandi quantità durante tutto l’anno (salsiccia, formaggio, dolci).
Naturalmente i veri protagonisti del Natale erano i bambini, che solo in occasione di feste particolari potevano stare alzati fino a tardi. E stranamente, proprio i bambini diventavano i destinatari di favole e racconti macabri che funzionavano da veri e propri spauracchi. Le leggende su streghe e creature fantastiche che turbavano la quiete delle notti di festa erano diverse da villaggio a villaggio, pur assomigliandosi tutte: da Maria Mangrofa – la strega divoratrice di bambini di Orosei – a Maria Puntaoru – creatura malvagia che tastava il ventre dei bambini durante il sonno e, se questo fosse risultato vuoto, avrebbe infilzato la loro pancia con uno spiedo d’oro appuntito. Ma oltre ad indurre i bambini all’osservanza delle buone regole, queste leggende parlavano anche al mondo degli adulti, spesso acciecati dall’odio e dalla cupidigia. Nascevano quindi leggende su fantasmi e creature demoniache posti a guardia di tesori nascosti oppure storie affascinanti su amori violati e tradimenti.
Un ruolo speciale, poi, era quello dei giochi. Il più comune era “su barrallicu”, una trottola a quattro facce ognuna delle quali aveva incisa una lettera: T per “tottu” (=tutto), N per “nudda” (=niente), M per “metadi” (=metà) ed infine, la più sfortunata, era la P per “poni” (=metti). A turno si faceva girare la trottola e questa, fermandosi, dava il comando preciso al giocatore: nel caso della lettera T il fortunato avrebbe preso tutto il bottino del gioco, in caso della P, invece, avrebbe dovuto mettere a sua volta sul piatto parte del suo. Il bottino era composto da noci, castagne e frutta secca.
Al rintocco delle campane di mezzanotte, le famiglie lasciavano le proprie case per recarsi a “sa Miss’e puddu”, ovvero la messa annunciata dal primo canto del gallo, che probabilmente conserva connessioni con la “Missa del gall” di origine catalana.
Oltre alla possibilità di ritrovare conoscenti non appartenenti al nucleo familiare, la messa di mezzanotte era un’occasione mondana molto sentita, soprattutto dalle donne in attesa di un figlio. Secondo alcune diffuse credenze popolari, infatti, le donne che non avessero preso parte alla messa avrebbero corso il rischio di perdere il bambino oppure di partorire un bambino non sano. Si trattava di credenze popolari radicate e spesso esorcizzate attraverso pratiche magiche e sciamaniche che avevano molto più in comune con le antiche credenze pagane rispetto all’autentica e pura devozione cristiana.
Il potere atavico di questa notte magica si rifletteva anche sui bambini nati a ridosso della mezzanotte, i quali, secondo antiche credenze, erano immuni da corruzioni fisiche e malattie. Oltre al privilegio di non perdere i denti e i capelli durante la vita, sarebbero stati assai longevi. Nel Logudoro, invece si riteneva che i bambini nati nella notte del 24 Dicembre avrebbero protetto le 7 case del vicinato ( il numero 7 conserva numerosi riferimenti al mondo precristiano ed è fondamentale nella numerologia esoterica e nella filosofia mistica).
Dulcis in fundo, un ruolo speciale spettava ai dolci tradizionali. Da “sa tunda”, pane dolce di forma rotonda arricchito con noci e uvetta, a “su bacchiddu ‘e Deu”, pane di forma allungata e decorato per essere simile al pastorale del vescovo, fino alle “pabassinas”, biscotti glassati a forma di rombo con impasto a base di mandorle, farina, sapa, uvetta, noci e nocciole.
Afectuoso saludo !