di SERGIO PORTAS
Nel suo ultimo libro uscito per Rizzoli ( Poesie jazz per cuori curiosi) Paolo Fresu si augura che in Sardegna nascano sempre più poeti, e forse necessiterebbe una continua gara poetica che girasse vagabonda per le variegate regioni storiche dell’isola, dai Campidani alla Marmilla, dal Barigadu al Logudoro, per raccontare in rima le storie di una possibilità di esistenza diversa dall’attuale. Che si lasciasse alle spalle contingenze di piccolo cabotaggio per riallacciarsi a temi più costitutivi dell’umano, in cui morte e vita si rincorrono in una giostra fatta di suoni e colori, donne e uomini a specchiarsi negli occhi dell’altro, mentre fuggono veloci le stagioni a cavallo del maestrale che folle di gioia piega i ginepri sulle rive del mare. Un grazie di cuore quindi a chi ha il coraggio di scriverle in libri queste storie, in un tempo ahimè dove la comunicazione che conta gira in 280 caratteri sull’impalpabile rete, e dove tutti sono oramai scrittori di tutto. Grazie ad Aldo Tanchis e Riccardo Casalini che si sono inventati la “1000 e una notte”, una casa editrice che ha a obiettivo la riscoperta di libri belli da riproporre, la pubblicazione di libri nuovi di carattere insolito, per il puro piacere di poter continuare a giocare per sempre con le parole , consapevoli che sono loro, le parole, a determinare le conseguenze delle vite di tutti. Lo dicono i poeti dai tempi che Omero narrò di Ettore e di Achille figlio di Peleo. Alla sede del centro sardo, in mattinata, l’atzarese Rosa Muggianu in qualità di lettrice, nella cornice di “Bookcity Milano”, i due editori sardo-lombardi hanno con sé i loro ultimi tre libri, tutti riferentesi al periodo in cui l’Europa, intesa qui come somma di nazioni contrapposte, decise che era venuta l’ora del suo suicidio e prese a pretesto gli spari di un anarchico a Serajevo per organizzare un macello sistematico della sua migliore gioventù: e fu la “grande guerra”. “Liscio come l’olio” di Guido Novaro, un memoir sincero (copio da rivera press) dolente ma sereno, fra nonni militari, nonne che salvano ebrei dalle SS, padri anaffettivi, scuole svizzere e agguati terroristici. Questo Novaro che fa la storia dell’olio Sasso è discendente da quell’Angelo Silvio di cui, da bimbo in prima elementare, ripetevo con mamma fino ad impararla a memoria la cantilena della: “pioggerellina di marzo ( del ’52) che picchia argentina sui tegoli vecchi del tetto, sul fico e sul moro ornati di gèmmule d’oro”. E poi “Il Pattinatore” di Marco Bacci, uscito già nell’86, che narra di Tiziano Floriani, pattinatore e pianista vertiginoso, sposa la figlia di una medium che lo abbandona per un energumeno futurista. Andato in guerra ne fuggirà assumendo l’identità di un commilitone morto, rifugiandosi in una baita dove troverà l’amore di una ragazza che lo salva dall’assideramento. Chi rimette la vita una settimana prima che la guerra avesse finalmente termine (25 ottobre 1918) è l’eroe del terzo libro della casa editrice che deve il suo nome alla principessa araba Shahrazàd che ammalia di storie le notti del sultano: Annunzio Cervi: “Le cadenze d’un monello sardo e altre liriche e prose”. Curatori dell’opera Aldo Tanchis e Valeria Pusceddu che nel 2007 ne fece tesi di laurea e un rielaborato: monello sardo, ritratto di un poeta . Chi era costui? Avrebbe detto il manzoniano Don Abbondio già dubbioso di Carneade, nella natia Sassari (1892) gli hanno dedicato una via ma i passanti distratti tutto ignorano di lui. E’ che la lasciò a sedici anni per seguire la famiglia, primo di cinque fratelli, il padre insegnante di liceo che finì la carriera all’Umberto I° di Napoli, la madre Costanza Cabras. “All’epoca Napoli è ricca di fermenti culturali: teatri, circoli, caffè diventano vivacissimi punti d’incontro degli intellettuali, anche giovanissimi, intenti a sperimentare nuove forme artistiche e letterarie, come il futurismo, distanti dal peso della tradizione” (pag.22). E’ l’ambiente ideale per il giovane Annunzio che va laureandosi in filologia latina, definirlo un tipo stravagante è poco: “Cervi si corazzava di stranezze…dalla cravatta enorme ai capelli inverosimilmente lunghi, dai guanti o bianchi o neri…Cervi vi capitava davanti come un essere caricaturale, come un essere di scena”. “Ti mando una foglia di alloro…d’un ramo colto nella mia Sardegna, l’anno scorso…tu dimentichi nel rimproverarmi, ch’io sono sardo. Sardissimo, troppo sardo…da monello a brigante. Ecco tutto. E sempre sardo, sardo…” (pag.6). Sassarese “impiccababbu” dice Casalini che si è formato all’”Azuni”, provocatore come molti suoi più famosi connazionali, sarebbe diventato un grande poeta e un grande fascista. Uno che si mette a discutere con Gabriellino D’Annunzio, figlio del “Vate”, denigrandone la poesia, ambedue giovani ufficiali a Torino in attesa del fronte, e fu sfida a duello, seppur ricomposta. E’ a Milano, sempre in divisa insieme al commilitone Luciano Nicastro, in una libreria del centro risvegliano la curiosità di una gentildonna d’età, due ufficialetti che vanno cercando libri di Claudel, lei sessantasettenne è la grande Eleonora Duse, la più importante attrice drammatica del tempo. C’è uno scambio di indirizzi. Ne seguirà un rapporto epistolare con ambedue che sarà poi pubblicato. Per intanto al Cervi arriva al battaglione un mazzo di rose rosse. Lui ricambierà: A Eleonora Duse che delle sue roselline romane covò queste rudi pagine: “…le batterie decimate dalla morte si sono rinvigorite nell’eroismo…troppo si demoralizzerebbero, perché a noi ufficiali, non aspetti, a costo di ogni angoscia, la necessità di dare esempio d’energica rinunzia ai nostri soldati (se li era scelti tutti sardi,ndr.)…Noi dobbiamo restare perché siamo i veri bombardieri del Re…Sopporteremo.Soffriremo. Vinceremo…” (pag192). Può non essere interventista Annunzio Cervi? Scartato alla leva fa’ di tutto per essere arruolato, ferito due volte in modo serio (avrà due medaglie d’argento al valore) ritorna al fronte dove i bombardieri, a differenza dell’artiglieria che spara da lontano, sono vicini alle trincee nemiche che devono far saltare in aria. Un cecchino lo uccide nei suoi ventisei anni. Sembrano scritte per lui:“…Egli cadde nell’ottobre del ’18, in una giornata così calma e silenziosa su tutto il fronte, che il bollettino del Comando Supremo si limitava a queste parole: “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, da Erich Maria Remarque, 1931 A. Mondadori editore. Le sue poesie sono state quasi tutte pubblicate postume ( anche con qualche superficialità) e si connotano ( come non potrebbero del resto) per attraversare periodi che lo vedono crepuscolare, futurista e simbolista. Arrivando alla fine a una scelta scarna e intimista che lo avvicina al prosare di Ungaretti. “Tuffo”: stasera le campane/ vestite di velluto azzurro/ a scaparsi/ sui davanzali dei campanilini// per un cielo/ che si scervella/ in un’unica stella/acuta. E “Notturnino in siesta”: lucciole/ in ubbriachi andirivieni/ abbandonano alla notte/ loffe di smeraldo. E “Io”: così/ come questo tramonto/ una bracciata di rosso vivo/ gheroni di sontuosità// tra poco/ un orgasmo d’oro/ le prime stelle. Ungaretti stesso, per quanto ne rimproveri la prolissità e il “fiume di chiacchiere”, nota in Annunzio “una facoltà nuova di pronta trasfigurazione della realtà con ironia lirica; una sensibilità e un temperamento veramente ricchi. Una strana fusione potrebbe essere questo poeta di Rabelais e Laforgue (pag.14). La 1000 e una notte ne pubblicherà l’opera omnia. In modo che ogni sardo possa sapere di questo suo poeta morto troppo giovane per diventare davvero “grande”. O forse no, la critica ufficiale segue dei tempi che non sono dei comuni mortali, una oramai riconosciuta grande poetessa del novecento: Antonia Pozzi, quando si tolse la vita coi barbiturici, era il 1938, aveva ventisei anni come Annunzio. Ce ne parla Aldo Tanchis perché il suo destino è intrecciato a quello dei Cervi, il fratello minore di Annunzio, Antonio Maria, valente professore di greco e latino la incontra a Milano, lui giovane insegnante al “Manzoni”, lei sedicenne di liceo. Uguali caratteri, uguale serietà nello scrutare la vita: si innamorano. Ma lei è di alta borghesia milanese, padre importante avvocato, madre nobile: contessa Cavagna Sangiuliani, nipote di Tommaso Grossi, poeta amico del Porta , del Manzoni. Certo che la sposerebbe Antonio Maria, ma il padre di lei non riesce proprio a concepire una tale unione. Impossibile anche pensare a una disobbedienza. Nel fantasticare un matrimonio futuro col proprio innamorato Antonia gli offrirebbe anche un figlio, a compenso di quel fratello giovane morto in guerra: scrive nel “Il bimbo nel viale”, una lirica del ’33: “Da quando io dissi-Il bimbo/ avrà il nome del tuo fratello morto// era una sera d’ottobre, buia,/ sotto grandi alberi,/ senza vederci in viso// egli fu vivo”. Ha scritto Graziella Bernabò ( Per troppa vita che ho nel sangue, viennepierre ediz. 2004) biografia della Pozzi: “Molto evidente nelle prime composizioni di Antonia Pozzi è l’influsso della produzione poetica di Annunzio Cervi, le cui opere le erano evidentemente note attraverso Antonio Maria, che, per quanto schivo, tanto all’interno della scuola, quanto al di fuori di essa, era solito parlare molto del proprio fratello e della sua poesia…In molte poesie del 1929 Antonia Pozzi riprende dunque da Annunzio cervi il lessico ardito, aspro, quasi prosastico, l’assenza di punteggiatura, la giovanile e baldanzosa nervosità”. Anime sorelle le definisce Aldo Tanchis, che con questo libro firma un’opera che definirei doverosa, glielo si deve ad Annunzio e anche alla vita che deve essere apparsa terribile ad Antonia se la volle perdere così presto. “Compierti non sapesti che nella tua incompletezza”, scrive Cervi in “Per la morte di un bambino”, poesia forse meditata dalla Pozzi. La tragedia di Annunzio ci pare così doppia: morì troppo presto e nemmeno poté ritornare, seppure solo col nome, in altra esistenza (pag.21).