di FEDERICA SABIU
“Ho conosciuto il freddo, quello vero, ero esausto e ho pensato di non farcela, ho pensato che la mia vita sarebbe finita lì in questo territorio ostile tra il Canada e l’Alaska circondato solo dal bianco candido della neve.
Come in un film ho visto, in sequenza, scorrere le immagini della mia vita passata. La mia dolce mamma, mio padre, i miei fratellini, gli anni del collegio, i miei amici di infanzia, mia moglie… E poi, il rumore martellante dei denti che tremavano mi ha fatto sentire vivo, era il rumore più bello che avessi mai sentito, era il rumore del ritorno alla vita”.
È una brava persona Roberto, chi lo conosce lo sa e chi non lo conosce lo percepisce fin dal primo istante. Ha gli occhi grandi Roberto, di un nero intenso e di una dolcezza incredibile, sono occhi che parlano, di chi ne ha passate tante nella vita, di chi non si è arreso mai, di chi si è fatto in quattro per costruirsi un futuro senza l’aiuto di nessuno. Mi dice che è sempre stato un tipo taciturno, che non gli è mai piaciuto stare in mezzo alla gente, si e’ creato una corazza negli anni, fin da bambino gli anni del collegio lontano da mamma e papà e dai suoi fratellini lo hanno indurito ma gli hanno insegnato la pazienza e la generosità. Oggi ha voglia di parlare, anzi, ha voglia di parlare tanto da quando è rientrato dal Canada. Le sue giornate sono scandite da allenamenti, da incontri nelle scuole con i ragazzi e, dalle presentazioni del suo libro “La Vita Oltre”. La vita gli dà una seconda possibilità per riscattarsi da quell’infanzia che tanto gli ha dato e tanto gli ha tolto. Si butta nel lavoro per costruirsi un futuro, si butta nello sport, le ultramaratone saranno la sua più grande passione.
Attraversa i deserti di tutto il mondo, dall’Africa all’Iran, dal Marocco alla Giordania, dall’Oman al Niger, dall’Australia sino all’Arizona. Non si ferma mai, non sa stare fermo, vuole gareggiare, vuole partecipare, vuole vedere fino a che punto il suo corpo riesce ad arrivare. Un giorno si stanca della solita “routine”, naviga in internet per cercare nuova adrenalina, si imbatte nella gara più difficile e pericolosa al mondo, la Yukon Arctic Ultra, conosciuta per l’estrema difficoltà dettata da temperature insopportabili (-50 gradi) e dall’abbandono della metà dei partecipanti già dal primo giorno di gara. Non perde tempo, si iscrive e gli organizzatori vedendo il suo curriculum non perdono a loro volta tempo a contattarlo.
Ormai ci è dentro non ha intenzione di perdere questa occasione e, nonostante il parere contrario della moglie e di molti amici che vedono al contrario di lui le molte insidie che nasconde la competizione lui va avanti, testardo e determinato come sempre. Non è né uno sprovveduto, né uno che non calcola i rischi, e da quel momento inizia un ultra-allenamento che lo porterà a macinare km di strada trasportando un copertone di camion che simula il peso della slitta che avrebbe dovuto trainare lungo il percorso nello Yukon. Si allena giorno e notte addirittura all’interno di una cella frigorifera in un deposito di carni per abituarsi a certe temperature estreme, lì dentro il primo presagio di quello che sarebbe stata la sua lunga notte da incubo nel bianco e nel buio delle montagne canadesi.
È arrivato il giorno della partenza, l’adrenalina è a mille, il giorno prima una conferenza stampa presso il comando della regione militare. In aeroporto a Cagliari centinaia di fan lo salutano e lo sostengono in questa sfida, tra loro anche la moglie e i suoi più cari amici che hanno cercato di fargli cambiare idea. I giornali lo mettono in prima pagina: “L’uomo del caldo che sfida il freddo”, si inizia a fare un conto alla rovescia incrociando le dita e sperando che vada come tutto programmato.
Il suo staff è composto da un gruppo di giovani che saranno lì ad aspettarlo ad ogni tappa, a scattargli foto e ad intervistarlo sul cammino in quella terra inaccessibile ad un comune mortale. I suoi compagni di viaggio da quel momento saranno il freddo (con punte oltre i -50 gradi), il bianco candido della neve, la sua torcia che gli indicherà la strada nelle tenebre della notte ed i suoi fantasmi del passato.
Primo giorno L’arrivo in albergo a Whitehorse una piccola cittadina ai confini del mondo è entusiasmante. “Ormai ci siamo non posso più tirarmi indietro”.
Dopo una notte insonne, per via dell’adrenalina pre gara e per terminare gli ultimi accorgimenti prima della partenza, il gruppo si precipita nel punto di ritrovo dove inizieranno quattro giorni di corso di sopravvivenza. Gli insegneranno ad accendere il fuoco in mezzo alla neve per riscaldarsi e per riscaldare i vivere, a crearsi un giaciglio per la notte isolando il più possibile il sacco a pelo, a difendersi da animali selvatici e soprattutto a non sprecare energie. “Ricordati di non sudare mai Roberto perché a quelle temperature sei fottuto”.
Secondo giorno Il primo checkpoint era abbastanza vicino alla partenza ma di lì in poi sarebbero stati a 60 km l’uno dall’altro. La mattina è soleggiata promette bene, costeggerà per tutto il tempo le pendici di un monte con pendenze sino al 10% e non è cosa da poco quando si traina una slitta da oltre 35 kg. “Nel pomeriggio avevo ormai superato più di un atleta, li vedevo affaticati e stanchi con la maschera della fatica a segnargli la faccia”.
La notte non tarda ad arrivare e neanche il primo presagio di morte, la pila si spegne all’improvviso e se non fosse stato per i compagni di quella notte scovare l’altra nel fondo della borsa si sarebbe rivelato un’impresa impossibile perché a quelle temperature, che non ti permettono di togliere se non per qualche secondo i guanti, ti si ghiacciano le mani. “Quella notte a farmi compagnia oltre l’ululato dei lupi ci furono le stelle, un cielo stellato mai visto prima”.
Terzo giorno Le ore di sonno sono poche, pochissime, ma c’è tanta strada da fare non può e non vuole riposare un minuto di più. La slitta è pronta, nello zaino un cambio per le ore più fredde, una seconda pila e qualche barretta energizzante per mantenere le forze. In questa giornata dovrà macinare tantissimi km che costeggiano un lago ghiacciato che sembra un’enorme distesa senza fine circondata da maestosi alberi che sembrano indicarti la strada raccomandandoti di non commettere errori perché in quel posto un solo errore può costarti la vita. La giornata procede senza troppi intoppi e la presenza di due affidabili compagni di viaggio renderà quel luogo meno solitario.
Quarto giorno I partecipanti iniziano a diminuire, si sono ridotti già alla metà ed essendo talmente bassa la temperatura si decide di partire in tarda mattinata. Roberto è euforico ha messo a dura prova il fisico ma è orgoglioso di sé perché è ancora in gara. Sarà penalizzano di qualche ora perché purtroppo, ignorando il regolamento, si è fatto prestare le moffole (guanti imbottiti) da un compagno di gara. Ogni atleta deve partire dal campo con il proprio equipaggiamento non può e non deve chiedere in prestito niente a nessuno. In quella giornata a fargli compagnia in quelle terre isolate e fredde sarà un ragazzo olandese con cui trascorrerà la notte all’interno di una vecchia roulette trovata per caso lungo il percorso. Sarà una notte lunga per via del freddo irresistibile e della paura di congelare che non lo abbandonerà mai per tutto il viaggio. “Mi aggredì l’immagine dei maialini congelati dentro la cella frigorifera dove mi ero allenato, le carni scuoiate, rosee senza più sangue, il residuo glaciale di quello che un tempo era la vita calda e pulsante”.
Quinto giorno Sono rimasti in tre e contro ogni aspettativa Roberto ce la sta facendo nonostante non dorma da tre giorni ed ha accumulato tanta stanchezza. La natura come sempre farà da padrona, il bianco candido della neve, il silenzio surreale interrotto ogni tanto da qualche ululato sarà una costante sino all’ultimo giorno.
I paletti catarifrangenti che segnalano il percorso ti fanno apparire la strada ovvia, e dietro ogni dislivello o curva ci sarà sempre un paletto ad accoglierti che ti indicherà la strada di casa. Ormai si è anche abituato al buio della foresta che è diventato un compagno di viaggio. L’aurora boreale di quella notte fu una sorpresa e meritava di essere contemplata, tagliava l’orizzonte e illuminava il cielo di un colore che non aveva mai visto prima. Il paesaggio era talmente rassicurante con tutte quelle luci e il ricordo di pregresse gare in altre parti del mondo gli diedero la forza di camminare per tutta la notte per recuperare il tempo perso ed arrivare così al prossimo checkpoint in un tempo ragionevole. “Se seguo i paletti non posso sbagliare, non posso perdermi, il mio fisico è allenato arriverò alla prossima tappa senza problemi ne sono certo”.
Lui il più anziano, che arrivava da un’isola del mediterraneo alle prime armi con un clima artico e che non dormiva da quasi quattro giorni era ancora lì! Subito per la testa iniziarono a frullargli immagini di gioia, la festa che gli avrebbero fatto in Sardegna al suo rientro, quello che avrebbero scritto i giornali italiani, insomma una scossa di adrenalina gli invade il corpo e gli da la giusta carica per non mollare. Aveva percorso circa 140 miglia e gli aspettavano altrettante miglia da fare in minor tempo ma la stanchezza iniziava a farsi sentire in maniera sempre più evidente. Dopo cinque giorni aveva imparato ad amare quel luogo con un trasporto quasi religioso.
Sesto giorno Con ormai tanti km alle spalle il giorno dell’arrivo si fa sempre più vicino. La giornata in mezzo alla foresta è stata ancora più pesante delle precedenti per via del terreno più scosceso e meno solido dei laghi. Dovrà cambiare pila, ed utilizzare quella di riserva, questo aumenterà la sua angoscia di trovarsi in situazioni pericolose senza via d’uscita. Arrivato al checkpoint di Carmacks è familiare, i ragazzi dello staff gli scattano una serie di fotografie e lo invogliano a non mollare. Dopo una zuppa calda e il tempo di asciugare la roba, decide di ripartire più carico che mai. Il percorso sembra più semplice del solito, la strada è larga come un’autostrada, non sembra essere un lago ghiacciato, ai bordi la vegetazione è fitta. Man mano che passano le ore quello che sembrava un percorso lineare diventa sempre più selvaggio e complicato. La strada è stretta ed ai bordi ci sono cumuli di neve, il sole sta tramontando ma gli indica la strada dell’ingresso alla foresta. Quando è dentro ormai è buoi, con la torcia sulla testa riesce a farsi strada e ad intravedere i paletti, lo assale una strana sensazione, è come se in quel posto ci fosse già stato. Si rende conto di avere delle allucinazioni, vede case e persone in lontananza, ombre fugaci a volte persistenti, sembra giochino a nascondino. Di lì a poco vedrà l’ultimo paletto, sarà l’inizio della fine. La torcia si spegne, cade sulla neve alta, si immerge sino alla cintola, i guanti si inzuppano, le mani in pochi secondi iniziano a ghiacciare. “No cazzo, non è possibile! Mi sto congelando! Non è possibile! Le mie mani! Nooooo!”.
Continua a camminare per km si guarda i piedi, sono diventati due blocchi di ghiaccio che riesce a muovere a stento, sono tumefatti e anche il sangue sembra ormai ghiacciato, le mani sono rigide le guarda e non le sente più sue, sono incollate ed accartocciate, sembrano le mani di un morto. Ripensa a tutta la sua vita trascorsa, sa che e’ arrivato il momento della fine, riesce a stento a tenere gli occhi aperti, qualcuno nella sua testa gli sussurra di non fermarsi, non vuole arrendersi e continua a lottare sino fare un vero e proprio patto con Dio. “Gesù Cristo mio prenditi le mani e i piedi, ma ti prego fammi vivere”.
Sarà una lunga notte quella di Roberto, passeranno 14 ore prima che lo ritrovino esausto e scalzo vagando in un lago ghiacciato con lo sguardo perso nel vuoto e con il terrore impresso negli occhi di chi ha visto la morte in faccia.
Dal giorno dell’incidente in Canada al nostro primo incontro è passato poco più di un anno. Roberto non è cambiato, è sempre il bravo ragazzo di sempre, quello pronto a tendere la mano a chi ha più bisogno di lui, il suo ottimismo è alle stelle e quando gli chiedo: “Come stai?”.
Mi spalanca uno splendido sorriso a 36 denti e mi dice: “Bene! La cosa più importante, la vita, la ho ancora. Dio ha ascoltato le mie preghiere, gli ho chiesto io di portarmi via braccia e gambe ma di lasciarmi vivere, ho ancora così tante cose da fare e, poi, non potevo abbandonate mia moglie Giovanna così presto. È vero sono testardo non l’ho voluta ascoltare e forse l’unico peso che mi porterò dietro tutta vita sarà questo! Ma Giovanna è una grande donna e so che mi ha già perdonato.”
Il suo libro “La Vita Oltre” non è solo il racconto drammatico a volte un po’ crudo di chi ama la vita, è un elogio alla vita stessa, un insegnamento scritto con il cuore. Recentemente sono stata a New York e ho consegnato nelle mani di un editore copie del suo libro “La Vita Oltre” con la speranza che venga tradotto in inglese e che venga divulgato così in tutto il mondo. Ci sono storie che meritano di essere raccontate; altre che meritano di essere conosciute.
per gentile concessione de https://www.lavocedinewyork.com/