di SERGIO PORTAS
Che lo si voglia o meno ci dovremo adattare nell’uso delle nuove tecnologie informatiche, perlomeno a Milano, perlomeno se vorremo continuare a vederci un film in una sala cinematografica: scarichi l’app (credo stia per applicazione), scegli film ,cinema, posto in sala, ora di proiezione: clicchi: riclicchi e paghi con PayPal (un’altra applicazione che ti scuce i soldi direttamente dal conto corrente). Se ti presenti al botteghino pensando di scambiare venti euro con un biglietto di carta e non hai prima avuto l’accortezza di prenotare, vieni scambiato per il marziano a Roma che anni fa si inventò Flaviano. E così frotte di sardi si guardano l’un l’altro increduli di non poter assistere al film del cagliaritano Paolo Zucca: “L’uomo che comprò la luna”. E il rammarico sfiora la disperazione all’arrivo del regista e di uno degli interpreti del film, quel Benito Urgu che in Sardegna è adorato (mi si perdoni la blasfemia) almeno quanto la Madonna di Bonaria. Con lui tutti vogliono farsi un “selfie”, insomma una foto col telefonino che certificherà per la vita che l’hai incontrato davvero, eri proprio tu che sorridevi assieme a lui, la foto prende immediatamente la via del “web”, della rete di internet, accioché tutto il mondo possa vederla e stupirsene (stampa satirica va dicendo che il nostro ministro degli interni segue il progetto di farsi un “selfie” con almeno 60 milioni di italiani prima della fine del mandato).
Benito del resto è un mito vivente, ti fulmina con battute a raffica, usa il nonsense, il paradosso, come modo preferenziale di comunicazione: “Scrivo per la gazzetta del Medio Campidano”, “non di tutto?”, “Del Medio”, “ma non l’avevano cancellata?”, “Si”, “è rimasto l’indice”. E ti guarda serio con gli occhi che ridono. Nel film di Zucca ha un compito impervio: dovrà ri-sardizzare un tale soldato di una speciale unità che si finge milanese (accento lombardo e capelli tinti di biondo) che si fa chiamare Kevin Pinelli, suo vero nome è Gavino Zoccheddu e il sardo (inteso come lingua) almeno quello non l’ha mai dimenticato. Come deve comportarsi un sardo-doc per non essere scoperto dai nativi nella missione che “obtorto collo” gli toccherà portare a termine in Sardegna ( all’estero) deve re-impararlo del tutto. A fargli da Virgilio nei gironi dell’inferno sardi: Benito Urgu (Badore). Che pure ha lasciato l’isola, tutto letteralmente bruciando dietro di sé. Troppo l’orrore e la vergogna per aver sparato al ladro che gli rubava le ciliegie, nascosto fra i rami dell’albero era un bimbo di sette anni. Come ci terrà a dire Zucca alla fine della proiezione, nel film ha l’ambizione di adattare registri diversi senza perdere di vista la stella polare di quella che è sì una commedia, ma anche una favola anarchica, paradossale, che fa satira di costume usando tutta una serie di stereotipi che lui si può permettere in quanto sardo, e quindi con essi prende in giro anche se stesso, ne scaturisce un’opera di autentica poesia. Che mette in luce il talento artistico di Jacopo Cullin, l’agente segreto, dotato di un’innata vena comica che è asse portante del film, ma capace anche di esprimere sentimenti contraddittori, insomma un’interpretazione a tutto tondo che premia il lavoro che ha deciso di svolgere, lui che si sarebbe potuto accontentare dell’enorme popolarità che gli aveva dato l’esordio a Videolina con il programma-cult: “Il cacio sui maccheroni”, frequentando seminari di recitazione a Roma dove diventa membro dell’Actor’s Center. Era il 2006, da allora si è esibito nei più importanti teatri/anfiteatri della Sardegna, ha fatto film e serie televisive, dirige e interpreta cortometraggi, nel 2015 Gianfranco Cabiddu lo chiama per il suo film .” La stoffa dei sogni”. E naturalmente nel suo già ricco palmares c’è “L’arbitro”, il film di Zucca del 2013, in cui è Matzutzi, calciatore fuoriclasse emigrato in Argentina che torna in Sardegna e risolleva le fortune calcistiche dell’Atletico Pabarile che disputa con scarse fortune il campionato di terza categoria. Doveva avere un ruolo meno importante all’inizio e quando il suo agente gli comunicò che invece era stato scelto per fare “Matzutzi” scoppiò in un pianto irrefrenabile, di gioia. Qui, dopo una serie di prove impervie a cui lo sottopone il suo “maestro di sardo”, tra cui fondamentali sono il gioco della morra, lo scolarsi litri di vino senza ubriacarsi, imparare a dire “mi spiace per te”, essere molto attento alla permalosità del sardo medio ( Urgu gli fracassa un piatto in testa quando si permette una battuta infelice sulla presunta attrazione che provano i pastori per le pecore non sposate). La scena a cui assistiamo alla metamorfosi del bruco che diventa farfalla parte dal basso, dall’allacciamento dei gambali, poi la macchina da presa sfila in alto su di un vestito nero ( giacca e corpetto compresi) in vellutino classico, rigida camicia bianca, il volto incorniciato da barba e capelli finalmente e fieramente neri, in testa “su bonette”. A tracolla un fucile a due canne, in spalla uno zainetto in pelle di vacca. Così “conciato”, dopo il regolare vomito rilasciato a bordo di una nave della “Tirrenia”, approda in una Cagliari trafficata e distratta: “Dov’ è finita quella Sardegna ricca di donne velate di nero, con in testa la brocca dell’acqua di cui parlavano i sacri testi su cui aveva dovuto sostenere un severo esame?”. La ritroverà lasciando il capoluogo, battendo le campagne, ricche di greggi che ubbidiscono ai suoi fischi dai toni diversi, soggetti stralunati ( è il caso di dirlo) e attaccabrighe , paesi che paiono dormire sogni da secoli (S. Giovanni in Sinis). Prove di “balentia”. In un, si fa per dire, tipico bar di paese, che mai ha visto donna al suo interno (dirà Zucca a film ultimato che è un vero bar di Seneghe), truci facce di avventori con barbe mal rasate, ritualmente intente allo scambio del “giro di birra” che aumenta inesorabilmente il tasso alcolico dei presenti, gli toccherà prima vincere una partita a bigliardino, poi esibirsi in una morra all’ultimo sangue. Avrebbe dovuto accontentarsi di quegli effimeri successi, non lasciarsi tentare da una bottiglia di “filu ‘e ferru” offertagli da uno sconosciuto: ne basta metà per sciogliere la lingua della “spia” e farlo tornare a parlare con l’accento meneghino: apriti cielo: una muta di cani e padroni armati di roncola prendono a inseguirlo per boschi, dopo averlo riempito di botte, lasciandolo pieno di ecchimosi, di sangue, e con un occhio pesto e dolente. A salvarlo l’incontro con un asino, un anziano pescatore di frodo che tira su i pesci con le bombe (“Non volevo fare un film sfacciatamente ambientalista”, risponderà poi a domanda il regista), la di lui signora della quale è innamorato da sempre e alla quale, nel periodo del loro innamoramento, ha promesso in regalo la luna. C’è quindi davvero un sardo (in verità l’attore che lo impersona Lazar Ristovsky è di origine serba) che ha avuto l’ardire di comprarsi la luna. Ed è sul nostro satellite che Paolo Zucca ( e le sue due sceneggiatrici “calibro da novanta”: Geppy Cucciari e Barbara Alberti) si inventa sia il paradiso dei sardi. Ce ne fa vedere alcuni, ieraticamente composti, di quelli “famosi”: un giovane Gramsci, una Grazia Deledda che stringe al seno copia del suo Canne al vento”, Emilio Lussu in divisa, Eleonora d’Arborea sontuosamente vestita che cavalca all’amazzone. Sulla luna è finito anche Badore, che Francesco Pannofino e Stefano Fresi ( due perfidi agenti dei “servizi segreti” amici degli “amerikani”) si erano affrettati a far fuori con tre pallottole di pistola munita di rigoroso silenziatore. Quando, insieme a numerosi soldati in tuta mimetica e armati sino ai denti, tutti su di un canotto, sono intenzionati a far fuori il nostro eroe Gavino e il “compratore della luna”, che sono insieme su di una spiaggia veramente lunare (nei pressi di S’Archittu), è una splendida Angela Molina (Teresa), suonando le launeddas, che salva la situazione, in grazia di una magia di quel “suo regalo” ricevuto in gioventù. “Ma come avete fatto a far scomparire il mare?”, chiede un giovane spettatore a Paolo Zucca nel dopo-film. “E’ la magia che solo la poesia riesce a fare”, gli risponde Barbara Alberti (presente sul palco insieme a Urgu, Zucca e Jacopo Cullin, e arriverà anche Geppy Cucciari), la poesia che pervade da sempre la Sardegna, terra che non si lascia condizionare più che tanto dalla modernità. E che lei e Geppy abbiano spinto il regista a scelte assolutamente fuori dai canoni consueti lo confessa apertamente Paolo Zucca. “Lo strepitoso Benito Urgu, continua l’Alberti, ha lavorato “in levare” nel caratterizzare il suo personaggio, lui che è abituato, se gli si lascia un poco di spazio, a debordare in improvvisazioni a raffica, una più divertente dell’altra. E anche stasera gli toccherà raccontare una delle sue barzellette, definendo i fori di pallottole dei cartelli stradali sardi, quali strumenti atti a che li possano “sentire” anche i non vedenti. Un sistema di lettura braille “alla barbaricina” ( e una sventagliata di fucile nel paese di Cuccurumalu, in realtà Santu Lussurgiu, se la farà scappare anche Jacopo Cullin). Il film è campione d’incassi in Sardegna, qui è stato salutato da applausi fragorosi da una platea che, ad alzata di mano, era sarda per metà. Ma, come dice Geppy Cucciari: “Ogni italiano che si rispetti ha un sardo nell’armadio, un amico, un parente che ne ha sposato uno” e tutti sono stati o vorrebbero presto andare in Sardegna. A lei qualcuno consegna la bandiera dei quattro mori, quella stessa che sulla Luna verrà alla fine orgogliosamente piantata al posto di quella americana a stelle e strisce.
Bellissimo film per ridere di noi degli stereotipi su di noi, per riflettere su problemi attualissimi per sognare che la poesia e la musica, incarnate in una donna, possano sconfiggere le armi e violenza.
Bravo Sergio sempre belli articoli
bellissimo articolo.
grazie Sergio