di LUCIANA PITZALIS
Il 25 Maggio a Tokyo. Arrivato il 4 aprile in Sardegna, il regista ha incontrato il suo pubblico in numerose sale cinematografiche insieme agli attori Jacopo Cullin e Benito Urgu. Al cinema Joseph di Ghilarza, in una sala gremita, Paolo Zucca ha seguito il film con i suoi spettatori per trovare conferme, per cogliere nuove suggestioni. Sguardo divertito e appassionato, accetta con molta cordialità di rispondere ad alcune domande dopo la proiezione. Più che un’intervista una chiacchierata e ancora alcune risate.
Ci potresti raccontare quando e come è nato il film? L’idea è nata circa 15 anni fa, ho iniziato a scrivere questo film quando abbiamo sentito alla radio di un americano, Dennis Hope, che vendeva in internet dei lotti di terreno sulla luna. Questa notizia ha colpito il mio immaginario: io ho la casa a S’Archittu. Ammiravo da sempre lo Scoglio del genovese: la sua roccia bianca, il suo cielo stellato, i suoi crateri mi hanno fatto sempre pensare che abbiamo la luna a casa, la luna è nostra, è a S’Archittu, non è giusto che un americano la venda… Da qui l’idea iniziale di creare un caso internazionale . Mi son messo a studiare i vari trattati sullo spazio e ho intuito, sulla scia di Dennis Hope, che nel diritto internazionale ci sono degli spazi per un’eventuale, ipotetica acquisizione della luna non di uno stato, ma di un privato. Dopo aver finito l’università sono stato tanti anni fuori. Sono tornato a vivere in Sardegna e guardavo il Montiferru e il territorio dove abito con occhi diversi… Sperimentavo uno stupore nuovo, molto fertile nei confronti di tutto ciò che mi circondava, a partire dai più piccoli particolari: come gli uomini stanno al bar, come i ragazzini giocano a sa murra. In questo periodo di ritorno, la Sardegna è diventata un oggetto di indagine. Il film è queste due cose insieme: la luna , il conflitto con gli Stati Uniti e l’idea di raccontare la Sardegna.
Una narrazione ironica, surreale, poetica…. La Sardegna in letteratura e al cinema è sempre stata raccontata con i toni della tragedia, una terra poco incline al sorriso. Volevo una commedia perché è il genere che mi piace. Il film, infatti, fa ridere.È una commedia non tanto sui sardi ma su come i sardi si autorappresentano, su come sono stati rappresentati , tutto con occhio ironico. Fino a metà è una commedia dissacrante, dei nostri tic, degli stereotipi, anche quelli meno piacevoli e che più ci offendono. Volevo essere enciclopedico… Formaggio marcio, poesia estemporanea, sa murra…ma il film assume poi un’altra piega: abbandona la presa in giro dissacrante e si trasforma in inno che, in realtà , non dissacra ma consacra i valori più positivi e più profondi della Sardegna.
Qual è stato l’impatto sul pubblico? Moltissime persone l’hanno visto in Sardegna, oltre che in molte parti del mondo. Ha iniziato il suo viaggio in Corea del sud in anteprima mondiale al XXIII Busan International Film festival. Dappertutto hanno capito il senso e l’hanno apprezzato. Volevo con tutto me stesso che fosse forte l’idea della consacrazione. Gli attori hanno fatto il resto; Benito Urgu è molto stimato dai sardi, Jacopo Cullin è simpatico e amato, bello e bravo come tutti gli altri attori.
Che difficoltà hai incontrato? La prima versione 15 anni fa… Il testo filmico ha conquistato un premio importante, ma il film ha avuto diverse false partenze e l’ho lasciato! Mi sono dedicato ad altri lavori, L’arbitro per esempio, nel 2013, lavori pubblicitari e altro. Poi l’ho ripreso, l’ho riproposto ad Amedeo Pagani, al produttore dell’Arbitro, film che ci ha dato grandi soddisfazioni. A lui è piaciuto, ma mi ha proposto di riscrivere il finale, considerato blando rispetto a quello attuale, e di lavorare con Barbara Alberti per il suo senso dell’umorismo che, a sua volta, ha coinvolto anche Geppi Cucciari, perché sarda e perché molto creativa. Hanno lavorato in sintonia e quasi di nascosto per idee sempre nuove… Alcune davvero irrealizzabili, altre invece sono nel film. Per alcune scene abbiamo dovuto usare effetti speciali: sommergibile, maremoti, la luna.
Come potresti definire il tuo film? Un grande fumetto! Una delle mie fonti di ispirazione è stata una puntata di un cartone: Asterix in Corsica (1973) e un episodio di Braccio di ferro che ha ispirato l’ubriacatura di Kevin Pirelli nel bar di Cuccuru malu con l’acquavite. Ma non solo… Il suo impianto drammaturgico è modulato sulle strutture archetipiche individuate da Chris Vogler nel suo intramontabile Viaggio dell’eroe; racconta, infatti, della crescita interiore di un eroe sui generis e del suo viaggio picaresco verso la scoperta e riappropriazione di una cultura e di un sistema di valori altri. Il film si pone come una commedia d’autore divertente ma che non ha paura di toccare le corde del dramma e di virare verso atmosfere fantastiche e liriche, di vera favola.
Lo sguardo dei continentali sul film: non hai paura che l’immagine della Sardegna che rimane impressa sia ancora quella dello stereotipo del sardo pastore, rozzo, violento e, in subordine, quella di una terra dai valori forti? I continentali conoscono tutti i luoghi comuni, capiranno che i sardi sono così intelligenti da prendersi in giro. Il luogo comune viene superato non facendo finta che non esista, ma ridendoci sopra… Il miglior modo! Sono convinto di esserci riuscito e il pubblico me lo conferma quando lo incontro. Dappertutto hanno capito il senso. Nella penisola uscirà tra poco. La commedia etnica esiste per tutti i tipi: baschi, meridionali. Il film è anche didascalico… come si gioca a sa murra, la postura, la battorina. Lo capiranno, l’ha capito anche Kevin Pirelli!
su gentile concessione de https://www.arborense.it/