di Roberta Murroni
L’isola di Sardegna, al centro del mare mediterraneo, isolata prima e vittima delle scorribande dei popoli del mediterraneo occidentale poi: i suoi costumi, le sue tradizioni e i suoi riti hanno conservato alcune caratteristiche tipiche della regione, archetipo di immobilità e conservazionismo culturale. In una terra in cui ogni aspetto della vita quotidiana diviene rito (nascita, crescita, fidanzamento e matrimonio, preparazione degli arredi, morte), il rito della “morte buona” è sicuramente quello maggiormente distintivo. L’attuale definizione di eutanasia e’ lontana dal rituale sardo: la morte, in questo caso, la Buona Morte, poteva essere di tipo violento e presentava spesso caratteri di salvaguardia sociale: mores diffusi, quelli del geronticidio e dell’infanticidio (per infermità dell’infante). La “mala morte” aveva caratteri totalmente contrari: cosí i sacerdoti cercavano di spiegare nel 1849 al popolo sardo che il peccato è una mancanza contro la ragione, la verità, la retta coscienza; è una trasgressione in ordine all’amore vero, verso Dio e verso il prossimo”. Vi erano peccati mortali che solo la mala morte poteva espiare, con giorni di sofferenza, di agonia. Fino all’arrivo di un’entità tutt’altro che sovrannaturale. S’accabadora. Colei che finisce, che porta la morte a chi si trova in bilico tra questa e l’altra esistenza; un bastone d’olivo d’olivo (su mazzolu) picchiato in fronte, un cuscino che soffoca, il collo strozzato dalle gambe della donna: così poteva agire s’accabadora. Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una rivalutazione morale e rivisitazione letteraria dei maggiori riti della cultura sarda; tuttavia la figura de s’accabadora, è quella che ha incuriosito di più, sia a livello isolano che nazionale: vediamo così la pubblicazione di un nutrito numero di saggi e romanzi con tema principale la figura di questa donna, tendenzialmente barbaricina e ogliastrina, ma non solo, e la vediamo muoversi in vari contesti storici (anche se, a tutt’oggi, questa figura sembrerebbe essersi estinta, almeno in teoria). La bibliografia è molto lunga, ma tra i principali testi possiamo annoverare il libro di Giovanni Murineddu, insegnante di storia e senatore della Repubblica dal 1996 al 2006, L’agabbadora. La morte invocata, edito da Chronos nel 2007; vi è poi l’interessante racconto della novantenne di Gadoni, Paolina Concas, raccolto nel testo di Dolores Turchi, Ho visto agire s’accabadora (la prima testimonianza oculare di una persona vivente sull’operato di s’accabadora) , edito da Edizioni Iris nel 2008. Infine, il romanzo di Michela Murgia, Accabadora, pubblicato del 2009 da Einaudi e vincitore dell’ultimo premio Campiello. Il nuovo romanzo di Giovanna Mulas, “Nessuno doveva sentire, nessuno doveva sapere (accabadora)” che in questa tradizione ben si inserisce, e ha visto pubblicazione alla fine di ottobre 2010, rappresenta il secondo volume della trilogia noir della scrittrice sarda, dopo “Dannati’” uscito in agosto 2010 per l’Iris4 Edizioni di Roma, e prima di “Mandinga (diablo)” che vedrà la pubblicazione nel 2011, corredato da foto d’arte di Pasquale Comegna. Questo nuovo romanzo ha in realtà una genesi molto lunga: “era già nella mia mente da una decina d’anni”, mi confida la scrittrice nei nostri incontri notturni attraverso il computer; la prima stesura prende però corpo nel 2008, quando l’amato padre muore improvvisamente. Una vita difficile, quella di Giovanna Mulas, ma intensa e carica di amore, dolore e sovrumano studio: 22 libri pubblicati ( tra sillogi, romanzi, poesie) e tradotti in 5 lingue, 58 premi letterari internazionali da lei vinti e più volte nominata dall’Accademia di Svezia per la letteratura per l’Italia. Ma non solo: amica intima del poeta Irwin Peter Russell, è giornalista e direttrice della rivista Isola Nera (Isola Niedda, in sardo, e Isla Negra, in spagnolo). Mi trovo di fronte ad un romanzo impegnativo, ma di scorrevole lettura per occhi affamati di raggiungere il finale, che è qui anche nuovo inizio. Mi racconta Giovanna: “già bambina, lessi qualcosa della figura dell’accabadora ogliastrina, – se pure possiamo permetterci d’ inserire questa figura in una zona precisa della Sardegna – in un saggio dello storiografo e saggista sardo (…e mio zio, come pochi sanno) il Generale Angelino Usai.” Per delineare una figura personale, ”soltanto mia”, afferma, “ho parlato e parlato con le vecchie della mia zona. Ho atteso, insistito ma non violentato, ho cercato, sentito, odorato rocce e muschi per immaginare come la mia donna avrebbe potuto muoversi.” Un lavoro di ricerca personale, quindi, e di profonda immersione nei riti sacri e profani, sardi e non, “passando arditamente dai sabba, orge demonio/streghe, al concepimento – già deciso, già scelto (e da chi?)- di questa bambina che sarebbe divenuta accabadora solo nell’isola e per l’isola ed unta lei stessa e per prima dalla violenza”, mi confessa. La fiabesca trama del romanzo mostra la dedizione minuziosa della scrittrice per la ricerca culturale e antropologica. Maddalena ha origini sarde e frequenta da pochi anni l’università a Firenze, insieme alla compagna di studi Aradia, una ragazza alquanto singolare: taciturna, smunta e pallida e capace di rimanere ore sotto la pioggia senza correre il rischio di un malanno; presumibilmente ha una vita dissoluta, esce la notte e ritorna solo al mattino. Tuttavia, incuriosita, Maddalena la segue e diventa spettatrice nascosta di un rito sabbatico: scoperta dalle streghe di cui Aradia è regina, sviene. Al risveglio non ricorderà nulla; solo qualche settimana dopo si ritroverà incinta. Convinta da Aradia, Maddalena tornerà nella sua terra e partorirà una bambina, a cui darà il nome di Abbaccai. La scelta del nome della bambina, non è casuale; confessa la scrittrice: ”ho giocato con l’istinto; di suono, energia. Durante la creazione del personaggio, dovevo far nascere un nome nuovo, mai usato e che anticipasse, nella musica della pronuncia, la maturità e l’uscita in scena della mia accabadora. Ecco quindi Abbaccai, anagramma incompiuto di ‘accabai’ in sardo ( trad. it. Io finii). La mia Abbaccai contiene anche ‘abba’, in italiano ‘acqua’, che è elemento primo, la nascita, la creazione: la Grande Madre. Ancora, nella selvaticità irruente del suo suono, Abbaccai mi riportava a Bacco quindi ai baccanali, ai sabba. In ogni caso, e da qualunque angolazione in quel momento la guardassi; la sentivo collegata alla nascita della mia accabadora”. Maddalena morirà mettendo alla luce questa bambina; cresciuta, e dopo l’orrore di uno stupro dal parte del giovane prete del paese, Abbaccai la notte stessa avrà il primo ciclo mestruale, quasi a volersi purificare: un nuovo ciclo termina e un nuovo ciclo, una nuova vita ricomincia: lei è ora s’accabadora, “Unica nei tempi, ciclica, Regina” (cit. g. Mulas), colei che uccide la vita per il rinnovamento, che dona morte e pace, che ci accompagna in questo romanzo quasi sibillino, onirico, in una favola immaginifica e, a tratti, inquietante come colei di cui “tutti sanno, ma di cui nessuno parla”.
Brava Roberta complimenti! e bravissima Giovanna Mulas ! mi auguro che la Sardegna un giorno non lontano si renda conto del talento di questa grande scrittrice nuorese pluripremiata al estero e più volte nominata al Nobel di letteratura Italiana .