di LUCIA BECCHERE
Nel 1924 un litro di latte ovino valeva una lira e 40 centesimi: convertito alla moneta di oggi, circa un euro e 24 centesimi. Sempre 95 anni fa un piccolo allevatore con un gregge di 41 pecore incassava dal latte 4.132,80 lire, cioè quasi 3.700 euro odierni.
Dati documentati in una sorta di bilancio aziendale. Un quaderno che racconta una piccola-grande storia scritta nelle cifre, riportate anno per anno con precisione e competenza, da un possidente nuorese appartenente ad una antica famiglia di pastori di Santu Predu. Gli allevatori un secolo fa costituivano una società autosufficiente, ma era consuetudine valutare entrate e uscite perché nulla veniva lasciato a caso nella gestione del gregge e dell’economia domestica. Siamo davanti quindi a un documento eccezionale da leggere oggi con particolare attenzione perché, rispetto al prezzo del latte e alla vertenza che vede i pastori in piazza per cercare di incassare un euro ogni litro di latte contro i 60 centesimi di acconto che non coprono neanche i costi di produzione, fanno riflettere sulla realtà di un settore che si è impoverito e non solo economicamente.
Simbolo di orgoglio e di appartenenza, il pastore è per noi sardi, parte integrante del territorio: un mestiere che arriva da molto lontano, da antenati che nei secoli lo hanno saputo trasmettere ai figli, un mestiere che non si può improvvisare, perché fin da bambini s’impara a conoscere tutti i segreti per sopravvivere, per difendere se stessi e il gregge dalle molte insidie.
Leggendo la partita doppia del possidente di Santu Predu si rafforza la conoscenza delle proprie radici, della propria cultura millenaria. «Il pastoralismo – afferma l’antropologo Bachisio Bandinu – è una civiltà che produce cultura». Negli ultimi sessant’anni, grazie anche allo sviluppo tecnologico, l’allevamento ovino ha subito notevoli processi di cambiamento: le aziende stanziali hanno sostituito cubiles e pinnettos, la transumanza con i suoi lunghi ed interminabili spostamenti resta un pallido ricordo, mentre moderni mezzi di trasporto hanno sostituito buoi, asini e cavalli, ponendo fine all’isolamento sulle montagne. Il cambiamento è arrivato con il piano di Rinascita e gli aiuti comunitari, alcuni pastori sono diventati imprenditori, ma a tutt’oggi troppi faticano e lottano per fronteggiare le tante spese che il prezzo del latte, del tutto irrisorio, non riesce a coprire perché non contempla nessun guadagno. La nostra è in prevalenza una società a vocazione agropastorale dove l’uomo e il gregge sono rimasti due elementi imprescindibili, la pastorizia è dentro la sua storia, scritta sulla sua terra alla quale il pastore unisce i suoi silenzi, intessendo con la natura intimi accordi e vigilando sull’ambiente al pari del gregge. È Il latte, l’oro bianco del pastore, la principale fonte di reddito che gli consente il sostentamento della famiglia, l’istruzione dei figli cullando la speranza di una vita migliore.
Oggi, in un momento d’imperante disoccupazione, molti giovani che si sono avvicinati alla campagna svolgendo questo antico mestiere con maggiore consapevolezza perché spesso acculturati e abbracciando il lavoro dei padri con orgoglio e conservando l’atavico attaccamento alla terra, vanno incontro a molte difficoltà: incendi, siccità e difficoltà nella commercializzazione del prodotto a causa della concorrenza serrata in un mondo sempre più globalizzato, fattori questi che molto spesso vanificano le fatiche e mettono a rischio l’agognato guadagno. Oggi il pastore si deve difendere da ben più pericolose insidie perché il suo prodotto prima di giungere al consumatore deve affrontare i passaggi obbligati di una filiera commerciale dove lui è l’anello più debole della catena. Da qui l’attuale rivolta degli allevatori sardi – rivolta che si è propagata anche in altre regioni italiane – che hanno aperto un tavolo di trattative con il governo locale e nazionale, le parti sociali e a controparte, portando avanti le loro istanze per far valere i propri diritti. E questa è cronaca recente.
Ma i nostri antenati pastori cosa direbbero di questi figli che lottano con orgoglio, caparbietà e certamente con ragione da vendere? Magari non comprendendo del tutto il perché del latte gettato in strada, senz’altro si sarebbero uniti a loro nella protesta, avendo vissuto le stesse fatiche e la stessa precarietà che la vita del pastore ha sempre comportato. Può quindi stimolare un’ulteriore riflessione il bilancio familiare della famiglia di Santu Predu, tralasciando un ragionamento pur doveroso sui costi di produzione, la fatica dell’uomo e i margini di guadagno, certo fa riflettere che oggi un giovane allevatore – pur con il suo fuoristrada, il telefonino e la mungitrice, incassi come valore reale, meno della metà del suo antenato del 1924 e, se si riuscirà a strappare alla fine di questa annata l’agognato euro al litro, perderà 24 centesimi sulle quotazioni di un secolo fa.
Vediamoli allora nel dettaglio questi dati che attestano il prezzo del latte e della lana di pecora e ci consentono di avere un quadro degli introiti annuali del pastore nella prima metà del Novecento.
Nel 1925 il nostro “contabile” valutava nel suo bilancio familiare un litro di latte una lira e 5 centesimi (35 centesimi in meno dell’anno prima), per un controlavolore odierno di oggi di 1,19 euro. Maggiori entrate dal latte nel 1926 con 1,50 lire al litro (un euro e 50 odierni) e nel 1927 con ben due lire (1,6 a moneta corrente), per scendere l’anno dopo a 1,20 lire (1,04), risalire nel 1929 a 1,60 (1,36 euro), nel 1930 a 1,07 lire (0,94 euro), calare nel 1931 a 0,95 lire (0,92 euro), un anno dopo 1932 a 0,90 lire di allora, tornare nel 1933 a una lira, 1,06 euro al valore di oggi, ridiscendere nel 1934 a 0,57 lire, corrispondenti a 0,64 euro.
Sono evidenti le frequenti e notevoli oscillazioni del prezzo, quello più alto lo si registra nel 1927 con 2 lire al litro mentre il minimo storico si rileva nel ’34 quando il latte veniva valutato meno di oggi. Curiosità: possiamo documentare che sempre nel 1934 un metro di chiffon di seta per signora (“h 0,90 cm”) commissionato dalle seterie italiane di Giovanni Raimondi di Roma, oscillava dalle 35 alle 80 lire al metro.
Per tornare all’ovile interessanti i dati del documento relativi alla produzione di latte a capo calcolata mensilmente sommando la produzione giornaliera di ogni pecora: un quarto di litro a gennaio, febbraio e giugno per 7 litri e 3/4 mensili; mezzo litro a marzo, aprile e maggio (15 litri e mezzo). Supponendo un forfait di quattro litri per tutto il mese di luglio e non prendendo in considerazione agosto e parte di dicembre, la produzione annuale di latte di un capo si attesta sui 72 litri e un quarto che moltiplicata per 41 capi, come riportato nel documento, viene indicata con un totale complessivo di litri 2.952 per anno.
Tenendo conto del variare del prezzo, l’introito annuale di 41 ovini era il seguente: 1924, 4.132,80 lire (3,672 il controvalore di oggi in euro); 1925, 3.099 (2.451,5); 1926, 4.423 (3.243); 1927, 5.904 (4.735); 1928, 3.542,40 (3.065); 1929, 4.723,20 (4.023); 1930, 3.158,64 (2.778); 1931, 2.804,40 (2.731); 1932, 2.656,80 (2.656); 1933, 2.952 (3.137); 1934, 1.682,64 (1.885). Totale complessivo reso da 41 capi in 11 anni, 39.084,48 lire per un controvalore odierno in euro, calcolato sul 1934, di 43.735.
Il nostro pastore-contabile annotava anche gli introiti derivanti dalla lana, prodotto che oggi dicono i pastori non si paga neanche i costi della tosatura con i 50 centesimi al chilo incassati quest’anno, quando il nostro possidente nel 1924 incassava 5,50 lire (corrispondenti oggi a 4,89 euro); nel 1925, 5 lire (3,55 euro); nel 1926, 4 lire (2,93 euro) e 1927, 4,50 lire (3,61 il controvalore odierno in euro). Poiché ogni capo ovino produceva in media un chilo di lana, il prodotto riferito sempre a 41 capi equivaleva quindi a 41 chili, per un ricavo annuale nel 1924 di lire 265,50 (235,89 euro odierni); 1925, 205 lire (162,14 euro); 1926, 154 lire (113 euro); 1927, 184 lire (corrispondenti a 148 euro di oggi). L’incasso di quattro anni per la lana era quindi di lire 819,50, per un controvalore odierno calcolato sul 1927 di 657 euro, contro un incasso attuale del pastore di oggi di appena venti euro, ben il 97 per cento in meno.
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