di CINZIA LOI e VITTORIO BRIZZI
Nell’orizzonte attuale della ricerca archeologica relativa ad archi, frecce e cacciatori del passato, l’interpretazione dei “segni” riscontrabili su una punta di freccia ritrovata in uno scavo, ha un’enorme importanza.
Le punte di freccia che vediamo nei musei o nelle pubblicazioni provengono molto spesso da sepolture, fanno parte cioè del corredo del defunto. Si tratta di manufatti integri e raffinati, realizzati appositamente per questo scopo da artigiani molto abili. Tali oggetti, oltre a mostrare un’elevata maestria esecutiva, forniscono numerose informazioni di carattere tipologico e culturale che, tuttavia, da sole non bastano a fornire indicazioni di tipo comportamentale sui nostri antenati cacciatori.
Altra faccenda è il ritrovamento di punte di freccia in un diverso contesto archeologico. Le punte che si rinvengono ad esempio durante una ricognizione di superficie, potrebbero essere state abbandonate volontariamente dopo l’uso, perché rotte e non più recuperabili. Osservando in modo attento queste rotture si riesce a stabilirne con ragionevole sicurezza l’origine: rottura incidentale (episodio di lavoro, caduta oppure calpestio) oppure rottura per collisione con un “bersaglio”. Attraverso l’analisi delle fratture macroscopiche si può risalire alla dinamica dell’impatto, mentre attraverso l’indagine microscopica è possibile comprendere se il bersaglio fosse di origine animale, vegetale o minerale (bersaglio mancato, a meno che esistessero anche allora competizioni come le nostre!). La validazione di questi esami è però possibile solo grazie alla completa ricostruzione del processo balistico: le punte di freccia devono venir replicate con la medesima tecnica e materia prima degli originali, immanicate in aste impennate e scagliate contro bersagli differenziati. Le rotture e le conseguenti abrasioni vengono campionate e registrate in modo da costituire poi indicatori da usare nel confronto con i reperti archeologici. Un processo di archeologia sperimentale dunque.
Comprendere se una cuspide è stata o no protagonista di un evento venatorio è molto importante, e non solo in termini autoreferenziali. Il contesto in cui essa è stata rinvenuta, le ipotesi sulla strutturazione sociale dei nuclei umani che l’hanno prodotta, la conoscenza del paleo ambiente, rappresentano un mix di fattori utili a delineare un quadro complesso che, sommato al meccanismo organizzativo della caccia desunto dalla forma e dalla conservazione di una punta, permettono di ipotizzare le dinamiche legate alla sussistenza adottate dagli abitanti di quel sito.
Quanto segue si basa su un caso di studio tuttora in corso, riferibile al tardo neolitico sardo. Il sito in esame occupa la cima di una montagna ubicata al confine tra la regione storica del Barigadu e la Barbagia, luogo selvaggio e ricco ancora oggi di selvaggina ungulata (cervi, daini , mufloni e cinghiali). In quest’area difficile da raggiungere e protetta, perché racchiusa all’interno di un’oasi faunistica strettamente vigilata da Guardie forestali, pressoché priva di presenza umana, sono state rinvenute un centinaio fra cuspidi di freccia e utensili in selce e ossidiana esausti, cioè scartati, perché non più efficienti, atti al trattamento della selvaggina. Il fatto che la quasi totalità delle cuspidi in esame sia stata ritrovata su una vastissima superficie dominante dall’alto, le boscose valli sottostanti (ambiente ragionevolmente non dissimile a quello di 5000 anni fa), ha fatto sorgere numerosi interrogativi sulle strategie di sussistenza adottate dalle genti che abitarono questi luoghi. Allo stato attuale dei lavori non è certo possibile avanzare delle conclusioni definitive e, probabilmente, non lo sarà mai. La macchina del tempo ancora non è stata inventata, per cui si deve procedere per induzioni e deduzioni progressive, cercando di “falsificare” le pur intriganti idee che sorgono man mano nel percorso d’indagine speculativa. Nella fattispecie una così grande mole di reperti, che cresce di ora in ora grazie all’opera di chi sta operando nella ricerca, accomunata da indicatori espliciti (punte rotte, abbandonate dopo l’uso perché non più recuperabili e strumenti per il trattamento delle prede), fa pensare ad un luogo “specializzato” che per centinaia d’anni ha svolto un compito particolare.
Il pianoro che sovrasta il monte, non propriamente un luogo di caccia, ha caratteristiche uniche: dominanza visiva e intrinseca protezione per via dell’asperità della salita lungo i suoi versanti. I passaggi degli animali, così come i corsi d’acqua, sono a centinaia di metri più in basso. L’orografia del territorio sottostante disegna un ambiente particolarmente adatto alla caccia d’appostamento e svantaggio, caratterizzato com’è da valli strette e vie di fuga obbligate. Questo per centinaia di ettari scarsamente o per nulla antropizzati dall’uomo. Il tardo Neolitico sardo viene descritto dagli studiosi come un’epoca contraddistinta da un’economia basata sull’allevamento del bestiame e sull’agricoltura di sussistenza, in un contesto di vita sedentaria e pacifica. L’economia di caccia, importantissima per le comunità vissute nelle ultime fasi del Paleolitico, è sempre stata vista come risorsa marginale di sussistenza per le successive popolazioni neolitiche; uno scenario come quello di Santa Vittoria risulta perciò fortemente significativo.
A questo punto ci si pone le domande: Come mai in questo sito, in questo luogo così atipico, è presente una tale densità di prodotti tipici delle attività di caccia? Per quale motivo i cacciatori neolitici salivano sul monte per depezzare la selvaggina abbattuta verosimilmente altrove?.
Viene spontaneo pensare ad altri scenari, ad esempio alle consuetudini dei cacciatori con l’arco moderni che si recano in zone selvagge del nord America ricche di selvaggina, ma anche ai predatori. Un cervo abbattuto è un forte richiamo per l’orso, che, dotato di un odorato finissimo, è in grado di percepire la carcassa a chilometri di distanza. Le raccomandazioni delle guide americane sono perentorie: depezzare rapidamente le parti edibili della preda ponendosi in posizioni difese, su alture che permettano l’avvistamento del predatore in arrivo, e tornare il più velocemente possibile al campo base consci del pericolo che si corre. Orsi, lupi e felini non scherzano. Ma orsi, lupi e felini pericolosi, in Sardegna non ci sono mai stati.
Ecco allora che si configura uno scenario alternativo. La “lettura” delle punte di freccia fornisce, infatti, ulteriori suggerimenti. Tutti i campioni esaminati presentano delle ricorrenze morfologiche significative che li accomunano e che hanno una diretta corrispondenza con elementi di balistica del sistema d’arma. Le rotture si presentano sistematicamente nella punta (elemento compatibile con il fenomeno della penetrazione dei tessuti animali) e nel codolo. Queste rotture hanno un’altra particolarità: un’elevata percentuale di esse presenta infatti una caratteristica meccanica propria della “vibrazione” violentissima che avviene nella freccia che impatta a breve distanza e che non ha ancora rettificato la sua traiettoria grazie all’impennaggio. Il “paradosso dell’arciere” si manifesta qui attraverso una conseguenza vibrazionale estrema, quando i punti nodali dell’asta della freccia in vibrazione mutano nel punto di contatto con la superficie del bersaglio. La freccia, mentre si trova in volo, “vibra” intorno a due punti nodali situati ad un sesto circa della lunghezza tra punta e cocca; all’impatto l’unico punto nodale si situa nell’interfaccia di contatto mentre la punta, libera di oscillare, lo fa con un moto velocissimo e impazzito contro gli ostacoli che ha intorno. Se la freccia è stata scagliata da pochi metri questo moto è ancora più violento e distruttivo. il fenomeno che spesso osserviamo tirando ad un bersaglio a pochi metri e che, a volte, provoca la rottura dell’asta.
Le punte rinvenute a Santa Vittoria sono piccole, rimaneggiate in fasi successive, ed infine scartate perché non più riparabili. Tutto ciò ci parla di una consuetudine di caccia affermata e dell’uso di proiettili di massa limitata, quindi – verosimilmente – facenti parte di un’attrezzatura non troppo forte. Per ottenere effetti significativi nella caccia all’ungulato con equipaggiamenti simili diventa naturale l’organizzazione di cacce di gruppo ordinate, per far si che aumenti la probabilità di colpire con più frecce gli animali in fuga. Ciò è stato osservato in contesti etnografici, ove gruppi di cacciatori “primitivi” utilizzano il sistema della battuta per stanare prede nel bosco e costringerle ad una fuga verso cacciatori appostati. Il territorio a valle del nostro monte è particolarmente adatto a questo sistema. Detto ciò, è interessante ragionare sulle conseguenze di un tale sistema in cui prevalgono i tiri a breve distanza, causa dell’alta incidenza delle rotture osservate anche nelle nostre punte.
Per quanto concerne la successiva fase di caccia, quella relativa al trasporto delle prede abbattute in un luogo specifico deputato alla macellazione, è necessario fare un altro sforzo di immaginazione. Quale motivo può aver indotto i cacciatori di Santa Vittoria a superare aspri dislivelli per raggiungere una posizione visivamente difesa, se il pericolo dei predatori non sussisteva? Rimane in piedi l’ipotesi del “predatore umano”. Da tale posizione si era in grado di osservare il territorio, di verificare l’avvicinamento di gruppi ostili che avrebbero potuto approfittare della situazione. Questa ipotesi, ad ora l’unica plausibile, è comunque molto azzardata, soprattutto se si tiene conto dell’orientamento attuale degli studi che definiscono le popolazioni del tardo Neolitico primo Eneolitico, ancora pacifiche e non dedite ad attività di caccia strutturate ed organizzate.
In sintesi, questo scenario è di certo affascinante ma ben lungi dall’essere dimostrabile. La complessità di questo genere di studi è altissima. E’ necessario però portare avanti lo studio e la sperimentazione sull’intera industria litica di S. Vittoria, tendere alla “falsificazione” delle ipotesi proposte finora; in altre parole provare a dimostrare il contrario. Se, ad esempio, si arrivasse a dimostrare la presenza di tracce di insediamenti abitativi sulla vetta del monte, tutta la cattedrale di congetture che avete letto finora, non avrebbero più ragione d’essere.
Al momento attuale, però, nulla fa pensare che questa ipotesi sia vera!
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Da una piccola punta di freccia in ossidiana o meno, si aprono dei vasti scenari conoscitivi, che un attento esame di abili e competenti relatori, porta alla luce. Da un semplice e forse non tanto banale punto di partenza, si possono discernere delle situazioni che nella loro semplicità, riescono a descrivere appieno scene di vita e di caccia del lontano Neolitico. E partendo da queste constatazioni, anche la conclusione che forse in quell’epoca non si viveva del tutto pacificamente, come si è sempre creduto, é sicuramente affascinante. Aspettiamo sviluppi in merito.