di NICOLO' MIGHELI
Signore in abito tradizionale vanno in udienza dalla Presidente del Senato per perorare la causa dei pastori, portano in dono una spilla e uno scialle sulcitano. Su facebook si generano discussioni infinite sul gesto e sull’abbigliamento di quelle signore. Come sempre sono in ballo l’identità e le tradizioni, l’uso, a volte disinvolto, che se ne fa. È una costante, ogni sagra e Cortes Apertas hanno operatori che in abito tradizionale vendono i propri prodotti, raccontano della propria comunità. Nell’uso dei simboli identitari il rischio di folclorismo, di riduzione a riserva indiana di sé stessi non viene colto.
L’abbandono dell’abito tradizionale nella vita di tutti i giorni è il racconto visivo della contraddizione a cui ci ha costretto la modernizzazione. Gli indumenti sono uno dei tanti sensori che segnano il nostro modo di autorappresentarci il rapporto con il mondo. L’abbigliamento dei sardi è cambiato nel Novecento, i maschi hanno abbandonato in massa l’abito tradizionale dopo la I Guerra Mondiale. Partiti in ragas e berrita, al rientro hanno rifiutato l’abito dei padri per indossare completi in velluto il cui taglio era simile alle divise militari. Questione di praticità si disse.
Le donne invece hanno resistito fino agli anni ’60 del Novecento, poi la moda veicolata dalla tv e dalle riviste ha avuto il soppravvento. Da allora l’abito tradizionale è rimasto solo nei gruppi di ballo o in alcune processioni spettacolari come il Sant’Efisio di Cagliari il 1° di maggio. Solo in alcuni paesi, viene in mente Desulo, le donne hanno continuato a indossare i capi tradizionali fino a pochi anni fa.
Oggi si avverte una ripresa, il più delle volte decontestualizzata. Si indossano quegli abiti per dare spettacolo e non come abitudine della vita quotidiana. Ci si racconta per quel che non si è, immaginandosi un passato mitico, l’unico possibile. Si sa che le identità si costruiscono a posteriori, si sceglie quel che si crede sia più rappresentativo ma si corre il rischio dell’autentico falso. Ci si veste in fardeta e si parla rigidamente in italiano generando dissonanze che diventano realtà estranianti.
Francesco Casula riflettendo su folclore e folclorismo sulle pagine del Manifesto Sardo, cita Antonio Gramsci che in una lettera alla madre del 3 ottobre del 1927 scrive della differenza tra folclore e folclorismo.
Il folclore come espressione viva della vita culturale: “[…] occorrerebbe studiarlo come una concezione del mondo e della vita, riflesso della condizione di vita culturale di un popolo in contrasto con la società ufficiale.”
Invece il folclorismo: “l’abbandono all’isolamento storico e a una cultura arbitrariamente privata di ogni residua mobilità, che definisce, malattia mortale, nella celebrazione di quei «valori» che disturbano meno la morale degli strati dirigenti e rendono in questo senso più facili tutte le «operazioni conservatrici e reazionarie», legando viepiù il folclore «alla cultura della classe dominante».
Novantadue anni fa Gramsci aveva ben chiaro il rischio, si era solo agli albori del processo; lui di solida formazione linguistica era abituato a cogliere i segnali deboli che sarebbero diventati cacofonia nei decenni seguenti. Perché sempre di grammatiche si tratta, in questo caso dei segni. Gli esempi delle differenze tra folclore e folclorismo sono sotto gli occhi di tutti. È folclore, tradizione popolare viva, il canto a tenore e quello a cuncordu.
Espressioni artistiche che hanno una rinascita imponente. I cantori indossano indifferentemente gli indumenti di tutti i giorni o quelli tradizionali, lo fanno sia in occasione di spettacoli e ancor di più in quelle della vita sociale dei nostri paesi e città.
Un’abitudine quotidiana. Ancor di più i cantadores a poesia, che salgono sul palco con gli abiti borghesi. Entrambe forme d’arte usano il sardo come lingua di comunicazione; non vi è nessuna contraddizione, è la cultura di un popolo che si presenta con forme sofisticate nella sua lingua naturale. Il ballo è altra forma d’arte dove si può leggere la differenza. È folclore quando le persone si impadroniscono delle piazze e ballano con l’abbigliamento che usano normalmente.
I gruppi folk, a cui va reso merito di averlo tenuto vivo, corrono invece il rischio del folclorismo quando eseguono le danze con ritmi accelerati, aprono il cerchio, si inventano coreografie per esigenze di tempi televisivi o per competere tra loro. Danno spettacolo: loro ballano e il pubblico guarda.
Una signora che fa bene i culurgiones, perché sente il bisogno o viene obbligata a vestire l’abito tradizionale quando li fa in pubblico in televisione o in una delle Cortes Apertas? Cosa ci guadagna quella manifestazione se non la riproduzione di una cultura disattenta ai significati progressivi della esperienza popolare e invece esaurita nel rispecchiamento della vita passata come sottolineava Gramsci?
Con una vena di ottimismo si può anche leggere una ricerca identitaria inespressa. Tutto è possibile. Maneggiare identità e etnicità bisogna farlo con grande cautela. Si toccano sensibilità, auto rappresentazioni, valori comunitari. Non dobbiamo mai dimenticarci che siamo noi gli autori del racconto, gli altri ci leggono anche in virtù dei messaggi che lanciamo.
La domanda resta quella di sempre: vogliamo essere dentro un processo autentico, con tutte le difficoltà che comporta, o mostrarci come la riserva impermeabile al tempo, buona per la recita dell’indio amigo, sterilizzata perché inoffensiva? Gli autori dell’autoesotismo, della self-colonisation siamo noi. Esserne consapevoli è liberante.