di VIRGILIO MAZZEI
Prima di iniziare a parlare di vino e dei suoi abbinamenti, è necessario fareun breve excursus su come la vite si sia evoluta nel tempo, perché il vitignosta alla base di tutta l’enologia.
Messo a dimora nel terreno adatto al suo sviluppo, ci permette infatti di poter trasformare una porzione di terreno, o una vasta zona in una vigna.I motivi per impiantare una vite possono essere di diverso tipo: semplici esigenze familiari, o come forma di investimento con finalità prettamente commerciali.
A seconda del tipo di uva che si vuole produrre – da vino o da tavola – la scelta del vitigno è però fondamentale, perché impiantare una vigna senza una scelta adeguata, e senza considerare le caratteristiche del terreno, potrebbe portare ad una perdita di tempo e denaro. La strada per un fallimento quasi certo.
Perciò, ad ogni vitigno occorrerà dare il giusto terreno, se vogliamo che si sviluppi e che produca quel che ci aspettiamo.
La vite ha una storia interessante: complessa, ma allo stesso tempo affascinante.I vitigni che oggi conosciamo, infatti, sono il risultato di un lungo percorso di mutazione genetica di una vite selvatica che l’uomo ha modificato nel corso di millenni. Quelli conosciuti e coltivati nel mondo sono circa 10.000 e, possedendo caratteristiche diverse, producono vini che si differenziano per le loro proprietà organolettiche.
Dal punto di vista legale, la coltivazione di un vitigno è permessa solo se iscritto nel Registro Nazionale e Comunitario delle Varietà.
Dal punto di vista storico invece, la domesticazione della vite che oggi conosciamo- e che utilizziamo per impiantare le nostre vigne –non ha ancora una data ben precisa, ma a seguito dei risultati emersi dalle ricerche archeologiche, storiche, e scientifiche si tende a farla risalire a circa8.000 anni prima di Cristo, per mano delle popolazioni residenti nelle regioni fra il Caucaso e l’Iran.
Ma esiste anche l’uva selvatica, e per quanto riguarda la Sardegna, luogo in cui ancora oggi si possono ammirare le sue piante –sia negli umidi anfratti che vicino ai ruscelli di montagna – le cose si fanno anche più interessanti.
Benché in passato i sardi che vivevano nelle campagne non disdicessero l’utilizzo della vite selvatica, producendo il cosiddetto “vino dei caprai”, di solito da quest’uva non si produce vino, se non in via sperimentale, o per semplice curiosità.
Questo tipo di uva in Gallura viene chiamata “ua di culora”, ovvero, uva di biscia. E non è certo un nome invitante.
Nonostante ciò, grazie a un produttore sardo esperto in enologia, ho avuto la fortuna di poter gustare questo tipo di vino.Nulla di piacevole!
I vini attuali hanno abituato il nostro palato a recepire sapori e profumi più gradevoli e compositi, ma sono felice che mi sia stata offerta la possibilità di avere questo tipo di esperienza.
Per quanto riguarda la provenienza, alla luce degli studi fatti da ricercatori, si ha la convinzione che la “vitis vinifera” dell’Isola sia una pianta indigena. Si tende a ritenere, infatti, che il ceppo -o eventualmente il sarmento – non sia di “importazione”, e che questa evoluzione sia il risultato dell’opera di artigiani esperti d’innesti e di coltivazione delle piante.
Ma le cose non sempre sono state facili per questa pianta, e in tempi lontani, anche la viticoltura sarda ha dovuto subire gli effetti devastanti prodotti dalla fillossera, un insetto parassita della vite.
Originaria del Nord America, e comparsa in Europa intorno alla metà del 1800, la fillossera distrusse le vigne sarde, e i primi ad essere colpiti da questo immane flagello furono i vignaioli della zona di Sorso.
Fortunatamente, dopo opportuni interventi sul territorio, la vite riprese a vivere e a svilupparsi in tutta la Sardegna. Senza la tecnica dell’innesto dei vitigni sardi su ceppi di vite americana resistenti alla fillossera, il problema non si sarebbe risolto.
Oggi, nel mondo del vino,i tempi stanno purtroppo cambiando velocemente. Anche la nostra Isola – soprattutto per ragioni commerciali – si è dovuta adeguare come le altre regioni, a utilizzare vitigni cosiddetti internazionali. La buona notizia è che la percentuale dei vitigni autoctoni è comunque predominante.
L’augurio – se mi è permesso – è che in questa corsa al modernismo e alla trasformazione, i produttori sardi tengano bene a mente che il nostro patrimonio vitivinicolo vanta una storia millenaria. Va quindi preservato.
Gli antichi vitigni sardi non devono assolutamente scomparire, o passare in secondo piano per far spazio ai vitigni “moderni”. Ben vengano le modifiche di produzione se dettate da necessità commerciali, ma si deve avere attenzione a non snaturare il nostro invidiabile patrimonio ampelografico, ricco di numerosi vitigni autoctoni.
L’esterofilia enologica potrebbe infatti rivelarsi qualcosa di negativo.
Virgilio Mazzei sommelier AIS (Associazione Italiana Sommelier)