di GIANRAIMONDO FARINA
Le recenti, plateali, forti e giustificate forme di protesta, indette dai pastori sardi per evitare un ulteriore deprezzamento del latte ovino hanno, ormai, coinvolto le coscienze di tutti e, nello specifico, di tutti coloro che hanno a cuore le sorti economiche della Sardegna. Un dato di fatto emerge chiaramente, se diamo lo sguardo generale alla lettura che della questione si é data. Sono intervenuti sulla vicenda un po’ tutti: dai pastori, ovviamente i diretti interessati, agli industriali sardi (per la verità, più cercati), ai giornalisti, ai sindacati (tardivi), ai politici, chiamati a dare una risposta immediata alla crisi, soprattutto se in vista ci siano delle elezioni regionali importanti come quelle sarde. Spiace considerare, però, che, tranne l’intervento di qualche economista autorevole, dal tavolo siano stati esclusi gli storici economici sardi. Ebbene, questo intervento intende, con semplicità e chiarezza, colmare questo vuoto, in modo da offrire un quadro esaustivo e breve, anche per i non addetti ai lavori, della “quaestio”. Per l’esattezza si tratta della rielaborazione di un mio intervento nel Convegno Internazionale di Studi della S.I.S.E. (Società Italiana degli Storici Economici), tenutosi presso l’Università Cattolica di Brescia nel settembre 2018, avente per tema lo studio del sistema agroalimentare nel suo complesso. Nello specifico, il sottoscritto, intervenuto come unico relatore per il settore lattiero- caseario sardo, già in quel momento, con dati economici e storici alla mano, aveva paventato un nuovo momento di crisi dell’agro-pastorizia isolana, dettato proprio dal continuo deprezzamento del costo al litro del latte ovino, parametrato al progressivo calo del pecorino romano nelle vendite. Già allora, circa cinque mesi fa, le quotazioni mercuriali della Camera di Commercio di Milano- Monza Brianza e Lodi, unica di riferimento per il settore, erano impietose: i valori del secondo formaggio italiano più venduto al mondo e prodotto in gran parte in Sardegna continuavano a scendere al cospetto di un prezzo di vendita al produttore del latte ovino di circa 70 centesimi al litro. Insomma le cause ed i fattori dell’odierna crisi erano già presenti. Attualmente, al 18 febbraio 2019, le quotazioni mercuriali della summenzionata Camera di Commercio, per il pecorino romano, non sono state positive ed hanno registrato, rispetto all’anno precedente, una variazione negativa del -28.7%.
Perché, dunque, questa crisi? Perché in Sardegna si parla di pecorino romano, “in primis” ed, “in secundis”, di pecorino sardo? Cerchiamo di rispondere, ribadendo, innanzitutto, alcuni dati incontrovertbili. Innanzitutto, con un patrimonio ovino di circa 2,5 milioni di capi ovini, la Sardegna é la prima produttrice europea ed italiana. In più, circa il 97 % del pecorino romano é di provenienza sarda.
Per spiegare l’introduzione del pecorino romano in Sardegna, occorre fare riferimento alla storia e a due date: il 1884 ed il 1906. Nel primo caso, il 1884, si era trattato dell’anno in cui la Municipalità di Roma aveva introdotto il divieto di salagione del formaggio all’interno della città. Questo fatto costrinse molti casari romani a spostare la produzione nell’isola. In Sardegna, infatti, continuava a persistere il quadro “pastorale” ben descritto, nel 1812, da Francesco d’Austria-Este, futuro Duca di Modena, nella sua Descrizione della Sardegna, ossia: “I sardi non avevano ancora idea dei vantaggi provenienti dalla manipolazione di far prati, fieno, tener vacche in stalla, far buttiri e formaggi. Scarsamente inclini all’allevamento stabulare gli abitanti dell’isola si dedicavano a quello brado ovino, grazie al quale ottenevano un’abbondante produzione di formaggi caprini e ovini”. Alla stagione liberoscambista postunitaria, comunque favorevole, in generale, per tutta la produzione ovicaprina isolana, con dati economici piuttosto significativi nell’export, favorita anche dal ruolo delle istituzioni agrarie, si aggiunse questo “nuovo elemento” del pecorino romano, che darà un significativo impulso alla creazione dei primi caseifici stagionali, favorendo nuovi processi di trasformazione. All’impianto dei primi caseifici stagionali provvidero, infatti, ponzesi, napoletani e romani che, per fronteggiare l’accresciuta richiesta di pecorino romano, si rivolsero all’isola, nota per l’abbondante disponibilità di latte e sale
Nel 1897 ai Castelli, ai Piro e ai Colonna, presenti tra Terranova (Olbia) e Oristano, si affiancarono i Cannavale a Monti, i Bertoli e Silvestrini a Bono (nel Gocéano), i Berio a Ittiri, i De Paoli, i Luporini & Landucci a Nulvi e Perfugas, i Castelli con altri soci a Macomer, Terranova, Bonorva, Chiaramonti e Chilivani, emulati più tardi da operatori sardi: i Sequi a Ottana, i Canu a Isili e i Salaris Chiappe ad Alghero.
In seguito, stabilimenti meglio attrezzati avrebbero fronteggiato la crescente domanda di pecorino romano sardo, una produzione che, sino ad allora sconosciuta, si affermò prepotente nell’isola – soppiantando quella del “fiore” sardo, il prodotto tipico della tradizione pastorale –, conquistando presto i mercati nazionali ed esteri, raggiungendo soprattutto, sulla scia dei flussi migratori, le tavole degli italiani d’America.
La produzione del pecorino romano si svilupperà indisturbata fino, appunto, al 1906, data ad quem della nostra riflessione, quando nei paesi della Sardegna settentrionale – come a Cagliari e nei centri minerari – violente proteste popolari si accaniscono contro i caseifici, simboli di un progresso ritenuto iniquo. L’avvento del sistema capitalistico aveva, infatti, evidenziato le prime laceranti contraddizioni: abbandono delle campagne e dell’organizzazione tradizionale del lavoro, inurbamento, inserimento nei processi industriali, sfruttamento, bassi salari e crescita del costo della vita, avevano reso assai precarie le condizioni di vita e di lavoro delle comunità coinvolte. In quel maggio 1906 le agitazioni scoppiarono dapprima a Macomer (Nu), nel Marghine (ora, non per caso, sede del Consorzio per la tutela del Pecorino romano D.O.P, n.d.r.), propagandosi nei paesi vicini al grido di “abbasso i caseifici”, “fuori i caseifici”.
Il malessere delle comunità agro-pastorali aveva precise ragioni economiche e sociali, in gran parte determinate dal sistema delle anticipazioni, accordate dagli industriali ai pastori. Queste assicuravano le risorse necessarie a impostare l’attività annuale delle aziende ovine, in assenza di forme alternative di credito agrario, ma rappresentavano un’arma a doppio taglio, in quanto la loro restituzione comportava, spesso, l’esborso di alti interessi. Né bisogna dimenticare che il pastore, indotto a cedere tutto il latte, con la prospettiva di più ampi guadagni, ma espunto dalla produzione e dalla commercializzazione del pecorino romano, non aveva accesso ai margini determinati dalla vendita del formaggio. Tutti aspetti che, si badi bene, ritornano anche nelle proteste odierne.
La produzione del pecorino romano, concentrata in strutture che rompevano l’unità dell’azienda pastorale, aveva, insomma, modificato profondamente il comparto lattiero-caseario, provocando, altresì, una drammatica frattura antropologica nella società agro-pastorale sarda, di cui si sarebbero valutate tutte le conseguenze solo nel secondo Novecento.
Per superare l’arretratezza economico-sociale dell’isola, che i moti del 1906 avevano portato alla ribalta, il ministro Francesco Cocco Ortu, originario di Benettutti (SS), aveva spinto perché fosse varata una nuova legge speciale, dopo quelle del 1897 e 1902. Il provvedimento aveva inteso modernizzare l’agricoltura e l’allevamento, ma anche creare le condizioni perché l’industria casearia potesse farsi “sarda”.. La legge aveva affidato alle istituzioni agrarie la promozione del moderno caseificio, preferendo un percorso mirante alla formazione, alla propaganda tecnico-scientifica, alla diffusione del credito e dello spirito associativo, senza incidere sugli squilibri sociali presenti nelle campagne. Pur criticata duramente la pastorizia brada, non si era promossa una seria lotta contro gli incolti che, frutto dell’assenteismo fondiario, avevano favorito lo sviluppo dell’allevamento brado ovino e incrementato le forniture ai caseifici, ma anche ridotto le opportunità di lavoro per i contadini, indotti a ingrossare i flussi migratori. Si era palesato, invece, un duplice atteggiamento nei confronti della pastorizia tradizionale e dell’industria casearia: biasimata la prima, si era accettata la presenza di incolti destinati al pascolo, e, purtroppo, non si era criticata la seconda per il ruolo assunto nell’economia sarda e per i benefici assicurati alla proprietà terriera assenteista. Una situazione che, purtroppo, fra alterne vicende, legate al susseguirsi di fasi di crisi e di sviluppo, segnerà la storia economica dell’isola anche nei periodi successivi e, non ultimo, questo.
Il pecorino romano é una cosa diversa dai vari tipi di pecorino sardo
Iniziamo a pretendere di chiamarci col nome giusto!!
Egregia signora ,sia il pecorino romano che oltre che in Sardegna può essere fabbricato nel Lazio ed in Grosseto (toscana), che il pecorino sardo , che naturalmente è prodotto solo nell’isola , hanno già marchio e disciplinari a se stanti. Perchè, perchè prima di scrivere quello che vi passa nella testa in rete , non vi informate sempre nella stessa rete?