di FIORENZO CATERINI
La
situazione è critica per la Sardegna intera. L’economia è una, e se crolla un
settore fondamentale come quello della pastorizia, le ripercussioni arrivano
fino a chi ora crede che il problema non lo riguardi. La pastorizia in
Sardegna, inoltre, è il più importante elemento di resistenza, in quanto
presidio territoriale delle zone interne, della più devastante catastrofe dei
nostri tempi, ovvero lo spopolamento delle campagne.
Il problema del prezzo del latte è dunque l’esito della monocultura della
pecora, che si manifesta con il conferimento del prodotto sotto il marchio del
Pecorino Romano che segue la via dell’esportazione soprattutto nel continente
americano. Latte di ottima qualità, che si potrebbe certificare tutto come
“biologico”, viene così trasformato in un prodotto che oggi ha un basso valore
aggiunto.
Questo succede perché ormai si è dipendenti da questo “sentiero”, cioè perché
l’esistenza storica delle aziende dipende da quella esportazione di quel
prodotto in America.
Molti sardi neppure conoscono questi punti base dell’economia della loro terra, e finiscono per prendersela con aziende che danno lavoro e portano reddito in Sardegna.
Ma come è nata questa dipendenza economica, si potrebbe dire, di natura coloniale? La Sardegna ha sempre avuto una grande tradizione nell’allevamento. Non solo ovino, ma anche suino, caprino e bovino. Nell’epoca in cui l’economia di mercato, prima del famigerato editto delle chiudende del 1820, non aveva fatto ancora il suo ingresso traumatico in Sardegna, l’economia dell’isola era certamente povera, dopo secoli di sfruttamento iberico. Era una economia cosiddetta di “sussistenza”. Quell’economia povera, tuttavia, recava in sé i germi, se vogliamo, di una crescita economica, in quanto diversificata in tanti settori. Anticamente infatti il mestiere del pastore era integrato con altre attività agro-pastorali, e le famiglie si sostenevano all’interno di un sistema produttivo diversificato. Nelle campagne si alternavano gli orti ai pascoli, ai terreni a riposo, ai boschi, al grano, ai vigneti. Era il sistema di gestione comunitaria delle terre, il “vidazzone – paberile”, che risaliva alla notte dei tempi.
Oggi fa specie sapere che gli stessi che rimproverano ai sardi la loro mancanza di spirito collettivo, sono i discendenti di quelli che nell’800 rimproveravano ai sardi che si ribellavano all’editto, alla chiusura delle terre, ai muretti a secco, la loro capacità di spirito privatistico.
In realtà la propaganda di quegli anni sulla privatizzazione delle terre nascondeva inconfessati intenti speculativi, una privatizzazione selvaggia finita nelle mani rapaci di industriali del Nord Italia, i progenitori di quelli che in campagna elettorale oggi si dicono amici dei sardi salvo, ancora oggi, proteggere le quote latte del nord e bastonare i pastori del sud.
Non è una
suggestione, badate bene. Le mani rapaci della borghesia industriale del Nord
Italia (altrimenti detta “razza padrona”) ha condizionato la storia d’Italia
fino a oggi, alleandosi con il ceto parassitario e latifondista del Sud, ed è
lo stesso che in Sardegna ha, negli anni della “Rinascita”, condizionato
l’economia sarda creando, se ce ne fosse bisogno, una seconda devastante
monocultura, quella della petrolchimica. Oggi ha mutato pelle, fa
l’antipolitica, pare difendere gli italiani, ma sotto sotto sempre quegli
interessi difende.
La privatizzazione della Sardegna, quindi, portò la peggiore economia di
mercato nell’isola, senza nessuna gradualità. La Sardegna entrò nel sistema del
mercato mondiale dalla porta di servizio, esattamente come una colonia
qualunque, ovvero producendo la mera materia prima.
Quando una economia è dipendente, infatti, si riconosce proprio dal fatto che produce solo le materie prime. E’ quello che accade, ad esempio, nei paesi africani post-coloniali.
La peggiore economia di mercato si concentrò in Sardegna sulla materia prima più appetibile dell’epoca, i boschi. Il patrimonio boschivo, in pochi decenni, passò da 500 mila ettari di boschi d’alto fusto a 113 mila ettari verso la fine dell’800.
Racconto
queste vicende sotto una prospettiva ampia e interdisciplinare,
“antropologica”, nel libro “Colpi di Scure e Sensi di Colpa”.
Quello sfruttamento intensivo delle foreste provocò la distruzione
dell’economia di sussistenza a vantaggio di una economia di mercato,
trasformando anche l’elemento umano. Infatti l’uomo della campagne sarde fu
costretto ad entrare nel “sistema”. Chi non si adattava al nuovo sistema
gerarchico e produttivo, finiva espulso dalla società. Per farla breve, è così
che è nato il banditismo.
In quelle lande desolate, esito del disboscamento, in una terra inaridita sul
piano ecologico, dove le guerre doganali nazionali, per proteggere l’industria
del Nord, si scaricavano nell’agricoltura del Sud, e dove il sistema
tradizionale comunitario delle campagne era stato distrutto, gli
automatismi del mercato finirono per trovarci terra buona per le pecore e per
la montante domanda di formaggio che arrivava dagli immigrati europei in
America. Giunsero così i caseifici romani e nacque il pecorino romano, di
cui siamo oggi dipendenti economicamente. Il tutto si accompagnò ad una
trasformazione antropologica e sociale. Il pastore, anche quello che fu
assorbito dalle fabbriche, entrò in un sistema industriale di produzione:
esattamente come gli operai, si trovò a produrre mera materia prima all’interno
di una catena di produzione dove la sua forza lavoro stava alla base e ne
rappresentava l’anello debole. Ecco perché gli osservatori insistono sulla
qualità del prodotto e sulla diversificazione della produzione. Perché è
l’unico modo per uscire dalla schiavitù del pecorino esportato, che sempre sarà
vittima delle dinamiche spietate del mercato.
Ma su questo un ruolo fondamentale lo fanno i consumatori. Oggi siamo tutti consumatori e spesso non ci rendiamo conto del potere che abbiamo di poter condizionare la domanda. Rivolgendo la domanda verso i prodotti sardi di qualità si incentiva una produzione che esce dalla schiavitù della monocultura e della mera produzione coloniale di materie prime. Prestare la propria attenzione alla qualità del prodotto significa dare il proprio contributo per lo sviluppo di una economia di filiera, cioè maggiormente libera e protagonista nel mercato, meno “coloniale”. Certo, l’obbiezione che si fa è quella del costo. I prodotti di qualità costano. E nessuno può fare i conti in tasca agli altri. Ma ricordiamoci anche che si risparmia in salute e che contribuire all’economia della propria terra avrà i suoi benefici economici per tutti un domani. Ricordiamoci anche, a proposito di latte che viene scaricato per terra, che lo spreco di cibo nel mondo raggiunge livelli tali da poter sfamare i bambini che muoiono di fame in Africa. Pensate solo a quello che si butta nei giorni di festa. Ovviamente non si parla degli indigenti: ma anche in questo settore, ovvero nel settore sociale, si può fare di più, a partire dalle mense scolastiche.
Durante le presentazioni dei miei libri, per far comprendere come le dinamiche dell’economia mondiale ci coinvolgono tutti e sono tipiche, faccio spesso l’esempio della Costa D’Avorio.
Anni fa, prima dell’invasione coloniale, questo paese africano era ricoperto di oltre il 90 per cento di boschi. Poi sono arrivati gli europei, hanno tolto i boschi quasi per intero e impiantato al loro posto la monocultura del cacao. Poi il colonialismo è finito, ma l’economia, in un modo o nell’altro, è rimasta saldamente nelle mani degli europei, che comandano e decidono in bello e il brutto in tutta l’Africa.
Ora l’ivoriano lavora il cacao senza sapere neppure che fine fa il suo prodotto. Se la multinazionale svizzera, o tedesca, o italiana, per ragioni di mercato, decide di abbassare il prezzo del cacao, l’ivoriano muore di fame, e magari è costretto a rischiare la vita in un barcone.
Questo è quello che accade in Africa oggi, accompagnata dalla nostra indifferenza, per non dire dal nostro razzismo. Oggi mangiamo una tavoletta di cioccolato svizzero, o italiano, o belga, ad un prezzo di mercato ragionevole, e dimentichiamo la fatica e i sacrifici di quei poveri africani, costretti a lavorare con paghe da fame nella loro terra. Esattamente come l’Americano che mangia il suo hamburger al formaggio non sa minimamente della fatica e del sacrificio del popolo sardo.
Stupendi i libri di Fiorenzo “colpi di scure e sensi di colpa” e “la mano destra della storia” 💗