RITORNO A MAMOIADA, BARBAGIA: AL DI LA’ DEL CARNEVALE, UN LUOGO CHE HA MOLTO DA OFFRIRE. ANCHE AI SUOI ABITANTI

di ALESSANDRO GANDOLFI

La “pietra più bella d’Europa” sbuca nel giardino di Maria Giovanna una mattina di primavera. È il 1997, gli operai sulla ruspa hanno appena iniziato a scavare

D’estate Mamoiada è calda, l’idea di una piscina non era male – quando improvvisamente la pala meccanica si ferma. C’è una roccia enorme a un metro di profondità. I contadini lo sapevano, l’aratro in quel punto si bloccava sempre. Ma questa volta la lastra è lì, mezza sepolta e sporca di terra. A Maria Giovanna Gungui bastano tre colpi di scopa per capire che in giardino ha appena trovato un tesoro. 

Oggi la Stele di Boeli, Sa Perda Pintà in sardo, è ancora lì, dove gli operai l’hanno sistemata in posizione eretta vent’anni fa. Ma la “pietra incisa” era sepolta in quel punto da almeno 5.000 anni, custode di simboli prenuragici – cerchi concentrici, linee, coppelle – che sono ancora un mistero. “Potrebbero essere ispirati alla dea madre o al culto delle acque”, dice Maria Giovanna mentre sistema le camere del suo B&B, a pochi metri dalla pietra, “ma altri legano quei simboli alla fertilità, al ciclo della natura. Alla nascita e alla morte”. Qui nel cuore della Barbagia di Ollolai tutto sembra essere legato al ciclo della morte e della rinascita. Mamoiada è il paese dei mamuthones, figure di un rito ancestrale che sovverte l’ordine costituito e apre un varco con l’aldilà. Mamoiada è il paese dell’edilizia in crisi – furono i mamoiadini a costruire negli anni Settanta le ville di San Teodoro e Porto Cervo – e di una rinascita che ha il gusto del cannonau. 

“Oggi abbiamo 2.530 abitanti e 21 cantine vinicole, un record”, spiega il sindaco Luciano Barone, “ma anche il segnale che i giovani non sono scappati, si sono rimboccati le maniche e hanno trasformato un passatempo, la vigna, in business”. 

Mamoiada è stato anche il paese della faida – decine di morti in vent’anni di delirante violenza – e di un successivo, definitivo risveglio. Se negli anni Novanta la Rough Guide scriveva di un luogo “tetro e deludente”, oggi in centro si incontrano cantine, enoteche, gastronomie, negozi artigianali e un museo quello delle Maschere Mediterranee – che da solo nel 2017 ha staccato oltre 23 mila biglietti. 

Vi si racconta la storia di una Barbagia remota e pagana che i romani non riuscirono ad assoggettare del tutto. Una Barbagia dove in pochi villaggi – Ottana, Orotelli, Mamoiada – il carnevale è ancora chiamato carrasecare, “carne da lacerare”, rito dionisiaco e propiziatorio. Il giorno più importante è il 17 gennaio, sant’Antonio Abate, il Prometeo cristiano che rubò il fuoco per donarlo agli uomini. Siamo a oltre un mese dal Solstizio d’inverno, le giornate si allungano, un nuovo ciclo ha inizio. I falò nei rioni di Mamoiada riscaldano un inverno ancora lungo e freddo ma i mamuthones – 12 come i mesi dell’anno, le maschere tragiche, la pelliccia di pecora nera e 27 chili di campanacci sulla schiena – escono per la prima volta a propiziare il nuovo anno agrario.

“Quando suonano i campanacci”, dice il cantautore Vinicio Capossela, che con Mamoiada ha un rapporto speciale, “è come se bussassero alla terra perché si risvegli”. Chi indossa la maschera perde l’identità e la danza si fa ritmata, zoppicante, ipnotica come un rave party del Neolitico. Gianluigi Paffi, guida al museo, pronuncia una frase che rimane impressa: “Sai perché si nasce, in questo paese? Per fare il mamuthones e sfilare il 17 gennaio. Tutto il resto è contorno”. Di tutto il resto se ne occupa per esempio un’impresa al femminile, Meskes: tre amiche tornate a Mamoiada nel 2015 con l’obiettivo di rimanerci, accompagnando i turisti in visite “esperienziali”. 

La lista è lunga. C’è l’archeologia con le molte domus de janas, i sepolcri che raccontano di un territorio popolato da millenni. Ci sono il coltellinaio Paolo Pinna, il produttore di formaggi Mattia Moro, la pasticciera Luciana Balia che prepara le caschettas allo zafferano per sant’Antonio Abate. C’è Franco Mercuriu, l’ultimo che ara le vigne con i buoi (ma Amorosu e Grassiosu l’hanno lasciato qualche mese fa e oggi è alla disperata ricerca di nuovi animali). 

E poi ci sono i mascherai come Ruggero Mameli o Franco Sale, custodi di una tradizione antica che vuole la visera rigorosamente in legno, nera, con le labbra grandi e gli zigomi sporgenti. Rappresenta un vecchio o un animale? È un demone o una vittima? “A Mamoiada non farti tante domande”, sussurra Salvatore Mele mentre svina nel garage di casa. Toto, così lo chiamano tutti, aiuta la moglie Fabiana e lo zio Emanuele in una piccola cantina, la Muzanu, una delle 21 raggruppate sotto il cappello Mamojà. Il consorzio riunisce grandi produttori come Sedilesu e Puggioni, altri più piccoli come Gaia, Montisci o Antonio Mele, che a metà ottobre dopo la vendemmia ha organizzato un pranzo in vigna. “Ha piovuto troppo, è stata un’annata disastrosa”, racconta Antonio, “e così abbiamo regalato 10 quintali della nostra uva a una cantina che ne aveva bisogno. Qui funziona così, ci si aiuta a vicenda. Forse il prossimo anno toccherà a me”. 

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