"NOVELLE OVALI" DI ANTONIO FALDA: QUANDO L'UMILE CAPOTERRA, RIVALEGGIA CON LA MITICA CITTA' DEL CAPO

recente incontro all'aeroporto di Cagliari tra Massimiliano Perlato e Antonio Falda (a sinistra) il quale ha omaggiato il libro a "Tottus in Pari"

recente incontro all'aeroporto di Cagliari tra Massimiliano Perlato e Antonio Falda (a sinistra) il quale ha omaggiato il libro a "Tottus in Pari"


di Marco Pastonesi *

Abdelatif, marocchino, cominciò con l’atletica. Disco, peso, corsa. Anzi, per amore di precisione: corsa, disco, peso, corsa. Infatti, c’era un tizio che caricava Abdelatif sulla sua Peugeot 504, lo mollava a 20 chilometri dalla città, e dal campo, poi fissava un’ora per tirarlo su e riportarlo a casa. Da lì al campo, e poi dal campo a lì, Abdelatif se la doveva fare di corsa, nell’intervallo lanciava e gettava. Quando gli dissero che esisteva uno sport chiamato rugby, Abdelatif fu pronto a dire si. E che differenza. Non per i viaggi, che anzi si allungarono: la squadra più vicina stava a 400 chilometri. Ma per l’insieme, la compagnia, l’ambiente. Ovale, il pallone. E Ovalia, il suo mondo. E di Ovalia Abdelatif Benazzi è diventato un condomino stimato e rispettato.

Jean Pierre, francese, giocava a tennis. Singolare, doppio, in mezzo una rete, guai a scavalcarla perfino nei cambi di campo. Finchè il padre di Jean Pierre giudicò il tennis troppo molle e lo indirizzò al rugby. Con un avvertimento: “Forse ti renderà un po’ nervoso”. Non era l’aggettivo giusto. Perché il rugby ha reso Jean Pierre Rives generoso, coraggioso, eroico, un angelo biondo capace di infilare la testa dove gli altri non osavano mettere i piedi.

Willie John, irlandese, era i capitano ideale: non lasciava mai solo un compagno, e non lasciava che qualcuno facesse la guerra al suo posto. Quando venne scelto per guidare i British Lions, cioè il meglio del rugby britannico in una campagna in Sudafrica, Willie John decise che, se a un certo punto della partita, se ne fosse reso indispensabile, avrebbe chiamato lo schema numero 99, e tutta la squadra avrebbe dovuto correre per aiutare, o vendicare, il compagno in difficoltà. Tutti. Insieme. Perché nell’impossibilità di espellere l’intera squadra, l’arbitro non avrebbe mai spedito fuori un giocatore. Così fu. E a forza di 99, Willie John McBride si guadagnò la storia.

Cabrio, milanese, è emigrato dal calcio come terzino al rugby come tallonatore senza trovare grandi differenze, il che la dice lunga sul suo valore tecnico. Poi, per campare, siccome non esisteva ancora il professionismo, anche se per lui non sarebbe mai esistito, ha fatto l’elettrauto. E adesso, nella sua officina, anzi, sotto, come in una taverna, o in una caverna, Gabriele Cabrio riceve, ospita, accoglie: per parlare e ascoltare, per guardare e vedere, per respirare e rivivere, per godersi un terzo tempo di cui nessun arbitro – si spera – fischierà mai la fine.

E Valter, aquilano, che prima giocava a rugby, poi si è dedicato all’atletica, a quasi tutta l’atletica, cioè al decathlon, infine è tornato al rugby, con tanto di scudetto e Nazionale. Adesso, che è un artista non più del sostegno e del placcaggio, ma del marmo e delle tele, Valter Di Carlo scolpisce rugbisti con scalpello e pennello, cattura attimi, libera forze, riassume storie. Già storie.

Di touche e mischie, di mete e calci, di maul e ruck. Di trasferte e gite, di charter e pullman, di cinque stelle e un ostello. Di spavaldi, di timidi, di timidi spavaldi. Di ragionatori, di irragionevoli, di irragionevoli ragionatori. Di cuori di leoni e di stinchi di santo. Di piloni e ali, di stelle e panchinari. Di uomini chiamati Chabal. Ogni rugbista ha almeno una bellissima storia da raccontare: la sua. E le storie di rugby, e le storie del rugby, sono le più belle, profonde e allegre. Perché la natura del rugby sta nell’impatto fisico, gradito, richiesto, preteso; sta nel senso del gruppo, della squadra, della banda, tant’è che la differenza non la fa il più bravo o audace, ma il meno bravo o audace; sta nel codice non scritto cui si deve obbedire, nell’orgoglio di una razza cui si appartiene, nell’appartenenza a compagni, e anche ad avversari, cui si rimane legati nella vita anche quando non ci si lega più in campo. Ammetto: non sono obiettivo. Se fossi il ministro dell’Istruzione, renderei il rugby materia scolastica obbligatoria. Se fossi San Pietro, il giorno del Giudizio universale regalerei uno sconto di purgatorio a tutti i peccatori purchè rugbisti. Ma sono un giornalista, perdipiù sportivo, e allora rubo storie, soprattutto ovali. E per questo furto ringrazio Antonio Falda. Con il rugby, e le sue “trentacinque piccole storie”, l’umile Capoterra può rivaleggiare con la mitica Città del Capo. Un miracolo che vale più di qualsiasi Grande Slam.

* La Gazzetta dello Sport

Aggiungi ai preferiti : Permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *