di SILVIA PIETRANGELI
Mio nonno materno era nato a Torino, da una famiglia di imprenditori che costruiva mattoni, e subito dopo la guerra decise di rimanere in Sardegna, stregato da mia nonna e dalla sua terra. Anche i nonni di mia nonna materna venivano dal nord. Lei, di un’agiata famiglia bergamasca, decise di lasciare tutto e di seguire lui, un costruttore di organi, prima in Sicilia e poi a Cagliari. E lei, alla morte prematura del marito volle restare nell’isola, nonostante non avesse alcun legame familiare.
Un mio bis-nonno dal lato paterno, invece, era romano. Un ingegnere del genio civile che, tra l’Africa e la Sardegna, scelse quest’ultima come male minore e invece che scappare via al termine della missione, vi trascorse tutta la vita. Anche il padre della mia nonna paterna veniva dal nord, da Parma: era un agronomo che all’anagrafe risultava Domenico, ma la moglie Dolores, che non amava quel nome, lo chiamò per tutta la vita Cesare. Ebbero molti figli e non tornò più in Emilia Romagna.
Il mio passato è fatto di uomini e donne che dal “continente” hanno deciso di vivere in Sardegna, l’hanno amata e l’hanno scelta per sé e per i propri figli. E dopo queste generazioni di avi immigrati nella mia terra, io sono la prima ad aver compiuto il percorso inverso, ritrovandomi a vivere al di là del mare.
Dieci anni e tre città diverse. Dieci anni e tre diversi paesi.
Berlino, Leeds, Barcellona. Tre mondi, tre culture profondamente differenti tra loro. Tre vocabolari posati sul comodino e altrettanti punti di vista da cui guardare l’Europa, o quel che ne rimane: prima sotto la neve di Berlino, poi attraverso la pioggia di Leeds e ora all’ombra del sole di Barcellona.
Non è semplice ritrovarsi ogni volta daccapo a scavare con le mani nude nella terra per infilzare i pali e posare qualche mattone che regga, per molto o poco tempo che sia, la tua esistenza in un altrove, sopra un pezzo di mondo nuovo, sconosciuto. Ci vuole impegno per seminare amicizie, ascoltare storie e vite e, nel frattempo, non trascurare tutte le persone che ti porti nel cuore, germogliate in altri orti o nei giardini dell’infanzia e dell’adolescenza. Costa fatica, spirito di adattamento e talvolta disillusioni. Oltre che, naturalmente, la crescita di un organo nuovo, che spunta nel petto, tra le clavicole e la trachea, chiamato nostalgiometro: un congegno sofisticato e sleale che, come una scossa elettrica, ti colpisce nei momenti più disparati, ti destabilizza e ti riporta con la mente laggiù, nella terra di appartenenza, dove si abbeverano le tue radici; falde di acque impastate di ricordi, di passato, di volti che non ci sono più o che il tempo ha trasformato. Acque dove galleggiano pezzetti di vita, apparentemente innocui ma fatali, che pensavi di aver rimosso. Costa caro trasferirsi a ventinove anni, quando si è soli e l’unica responsabilità che si possiede è quella verso sé stessi. Si parte con un bagaglio leggero, idee confuse, molta incoscienza e nelle gambe il primo passo da adulti. Costa salato anche qualora ci si sposti in due, quando si trascinano le valigie cariche di consapevolezza per un inizio che coinvolge anche la vita di un’altra persona. Infine, se possibile, il prezzo è ancora più alto quando si fanno i bagagli per tre e si è gravati dalla responsabilità di decidere dove far sentire a casa un figlio. Si perde e si riceve. Come sempre nella vita.
Eppure, nonostante i sacrifici, la frustrazione e la solitudine che la vita in un altrove comporta, riprenderei quel primo aereo per Berlino, seguirei Stefano a Leeds e ripercorrerei i mille e ottocento chilometri in macchina per spostare la nostra vita nel cuore catalano.
Non è facile spiegare il perché, ma penso abbia a che fare con la voglia di conoscere, di capire. E non mi riferisco solo a ciò che ci circonda. Quando guardi per la prima volta la cartina di una città che non conosci, ma che sai diventerà la tua casa per un pezzo di vita, è come osservare la mappa di te stesso riflessa in uno specchio. Mentre percorri strade dai nomi nuovi, a volte difficili da pronunciare, cerchi di memorizzare piazze e palazzi, studi gli itinerari degli autobus, scendi nelle stazioni della metropolitana, acquisti il tuo primo abbonamento, impari le marche sconosciute al supermercato, assaggi pietanze, chiedi indicazioni, ascolti un tassista, sorridi a una vicina nell’ascensore, mentre fai tutte queste cose, tu non lo sai, ma stai scoprendo non solo una città e il suo modo di vivere, ma anche te stesso, ciò che sei veramente.
Perché non sei un viaggiatore di passaggio che tra quattro giorni, una settimana, due mesi sarà nuovamente a casa, in realtà sei un aspirante abitante consapevole che quelle strade, quelle persone sono il tuo presente e il tuo futuro prossimo, e che devi affrontarle senza tutte le sovrastrutture e le maschere che la famiglia e il contesto sociale da cui provieni ti hanno assegnato. Nell’altrove hai solo una bussola, il tuo istinto, che ti suggerisce quale strada imboccare, dove fermarti, la direzione da prendere.
In fondo, i passi che compi nelle città straniere non sono altro che i passi di una danza da imparare giorno dopo giorno. Che può avere il ritmo tecno dei club di Berlino, l’eleganza di una ballerina classica o la struggente nostalgia del flamenco.
Però, per imparare i passi devi aver voglia di ascoltare, sempre, tutti: l’infermiera di Leeds pro-brexit che mi chiede se anche l’Italia faccia parte dell’Unione Europea. La collega di tirocinio che ti racconta come la madre è scappata da Berlino est dentro il cofano di una macchina. La proprietaria del bar sotto casa che ti spiega i vantaggi di una Catalogna indipendente.
Per me, le città che si abitano, sono come una persona, un’amica che con il passare del tempo impari a conoscere. Poco a poco capisci quali sono i suoi gusti, i ritmi, gli umori, i colori preferiti, i vestiti; certe mattine basta affacciarsi alla finestra per capire se ti accoglierà con gioia tra i suoi meandri o ti tratterà male. La ami, la odi. Però arriva un momento in cui ti avvicini, la guardi negli occhi e la prendi per mano. E senza esitazioni ballerete insieme, come se fosse la cosa più naturale, come se conoscessi quei passi sin dalla nascita. Allora sì, farai parte di lei, sarai a casa.
E quello sarà anche il giorno in cui capirai che il più bel regalo ricevuto dal vivere in un altrove, è il poter tornare a casa e vedere la tua città natale con gli occhi di un viaggiatore, o meglio, del viaggiatore che lungo la rotta sei diventato; il dono più prezioso sarà avere voglia di scoprire la tua Itaca di nuovo, di respirare il suo profumo, di sentire i suoi sapori e soprattutto, di guardarla negli occhi e di voler ballare ancora una volta con lei.
Silvia Pietrangeli è una scrittrice Italiana che vive e lavora tra la Spagna e l’Italia. Nata trentanove anni fa nel cuore di Cagliari, cresce tra i libri, la danza e la ginnastica ritmica. La passione e il talento la portano nel 1992 a entrare come ginnasta nella Squadra Nazionale Italiana e a partecipare ai Mondiali di Bruxelles, dove vince con la squadra l’argento e il bronzo. L’adolescenza tra i banchi del liceo, le pedane e le trasferte in giro per l’Italia, le insegnano sacrificio e disciplina, ambizione e determinazione. Nel 2003, dopo il ritiro dalla carriera agonistica, fonda Varitmés, insieme a Valentina l’amica di tante avventure sportive. Varitmés nasce come Compagnia di Danza Contemporanea e di Sperimentazione. Dal 2003 Silvia e Valentina portano in scena numerosi spettacoli in Italia e in Europa, e sono ospiti di prestigiosi festival di danza e rassegne teatrali. Contemporaneamente si laurea in giurisprudenza all’Università di Cagliari. Inizia la pratica legale presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato, che diventerà ironicamente una “scuola di scrittura creativa”, conseguendo dopo tre anni l’abilitazione alla professione di Avvocato. Nel 2008 si trasferisce a Berlino, la città del cuore, dove lavora presso la Camera di Commercio Italiana per la Germania, e mette in scena vari spettacoli con Varitmés. Questo mix di esperienze eclettiche e multiculturali accende il desiderio di scrivere. Nasce così Angeli & Pietre, uno spazio creativo on line, composto da articoli di taglio giornalistico e racconti brevi, esperienze di vita, ricordi di viaggio e d’infanzia. Nel 2008 Silvia ritrova Stefano e lo segue in Inghilterra, a Leeds, nel cuore dello Yorkshire, dove trascorrono sei anni insieme. Oggi vive tra Barcellona e la sua amata Italia, con Stefano e il piccolo Michele. Sotto il sole della città catalana, ha appena concluso la stesura del suo primo libro, continua a scrivere su Angeli & Pietre e prosegue il lavoro con la compagnia Varitmès.