di LUCIA BECCHERE
Permeato del mondo onirico dell’infanzia e della bellezza della natura selvaggia, il libro Il mio paese è il più bello del mondo di Gavino Pau (Nuoro 1913-Roma 1989), edizioni Solinas, pubblicato dal Lions Club Nuoro, è un viaggio nel tempo e nelle tante storie avvolte da arcani misteri. Intellettuale raffinato e di grande spessore, «l’autore ci ha consegnato uno spaccato del suo sapere, dandoci nel contempo una dimostrazione del profondo amore per la sua Nuoro», afferma il nipote Annico Pau nella sua nota introduttiva al testo da lui curato.
Nelle pagine del libro rivivono persone e avvenimenti, momenti di vita che hanno attraversato la sua esistenza, ricordi indelebili in cui i sentimenti si colorano di musica e silenzi. Il suo racconto è un quadro che si anima: carretti, cavallucci e bambole di ferula, «lavori che si caricano di tante premure per i figli» e dove rivivono indelebili i sabati e domeniche quando si consumavano cementate consuetudini e il buon vino, causa spesso di eccessi, quando si rompevano equilibri consolidati e modi di essere nei vari rioni connotati da differenti identità sociali: Su Rosariu, Santu Predu, Lolloveddu, Seuna. Davanti a noi scorrono storie di umana e bonaria ironia, antiche credenze che andavano rispettate, sposalizi con i lunghi preparativi, i carbonai dalla vita faticosa ed incerta e il servo pastore bambino che faticava non poco a mettersi in proprio perché «da servo non si campa neanche solo».
Con stile asciutto ed incisivo l’autore ci consegna la storia di una terra arida, maledetta ma generosa, di una esistenza dove tutto è minimale, di un cielo avaro di pioggia ma che abbondava in cavallette. Intense rivisitazioni poetiche della natura, descrizioni animate da genuini sentimenti d’amore verso la vita quando la natura diventava sottile pensiero e dolce musica, quando perfino le piante con le quali si creava una sorta d’intesa, avevano qualcosa di umano. È la profonda e commossa sensibilità dell’autore che avvolge ogni cosa quando evoca quel bam- bino che si porta dentro e si materializza negli occhi di una lucertola con cui intesse perfino un dialogo. È l’amore per gli animali che lo induce a sottrarre il suo Asinello alle angherie del padrone che il povero quadrupede odiava di un “odio universale” perché sentiva la libertà nel sangue. È con afflato poetico che coglie l’immenso e magnifico volo dei corvi consegnandoci immagini straordinarie che sottendono la perenne ricerca di libertà insita nell’uomo.
Allora tutto era naturale, quando a scandire il tempo era il tocco delle campane e la campagna era un libro aperto di conoscenza. «Così era la Repubblica dei ragazzi di Nuoro, senza capo e senza gregari, felici di essere ragazzini di San Pietro», confessa con malinconico rimpianto Gavino Pau.
Nel libro rivive il vecchio convento dove «i bambini imparavano che a scuola si va per diventare grandi», antico e severo immobile, simbolo di coesione fra religione e istruzione, fra scuola e Chiesa. Austerità che si dissolveva nel vociare dei bambini artefici di mille marachelle che l’autore dipinge con umana comprensione verso quel mondo spensierato dove ogni cosa si traduceva in arte del vivere e l’arte trovava nutrimento nell’amore. Sono i bambini di Nuoro, predestinati nella povertà, nella ricchezza e nel ceto sociale, livellato dal gioco comunitario che nella buona e cattiva sorte riesce ad abbattere le barriere perché il loro mondo segue altri percorsi che si discostano da quelli degli adulti di cui non ne comprendono regole e linguaggio.
La piazzetta si erge a tempio dove trovavano accoglienza poveri, carrolanti, contadini, zorronaderis, tagliapietre e carbonai, ma anche galline e anatre, cani e cavalli accomunati dal richiamo delle campane che scandivano messaggi uguali per tutti e dove il pianto dei bambini era spesso messaggio di fame e pidocchi.
Nella Nuoro del tempo accadimenti lieti e tristi scandivano la vita di tutti i giorni. Se la domenica le donne e i bambini assistevano alla Messa, gli uomini non si sottraevano al richiamo delle bettole, ai lunghi pomeriggi estivi facevano da contrappeso gli interminabili freddi inverni quando il rione si animava d’un mondo operoso: ziu Luisi su mastru ferreri, ziu Panzedda il falegname, ziu Beccu lo sciancato ortolano, ziu Jubanneddu, ziu Badore mentre il giorno si chiudeva quando i bambini stanchi si addormentavano sognando i gatti a duettare sui tetti e i cani a vigilare sui loro sogni. Appassionato di musica, Gavino si lasciava trasportare dal suono delle campane (Sa Campana manna, sa campana ’e mortu e Leonzedda) che avvolgeva di note i suoi sogni che volteggiavano nel cielo di Nuoro trasportando il giovane in paradisi lontani senza steccati, distese sconfinate di colore, canto e armonia.
L’autore si sofferma a riflettere sull’ultima dimora dell’uomo: i cimiteri. Quello di Nuoro si discosta da tutti gli altri, luogo di pace e di quiete, di pianti e di suppliche, di velate presenze e di sguardi che ci accompagnano sempre e comunque, di voci familiari e di silenzi sussurrati, per sostenere che: «si può dubitare di tutto, perfino di noi stessi, ma non possiamo dubitare della morte».
Gavino Pau, dopo aver conseguito la laurea in Storia, Filosofia e Pedagogia a Firenze, ha fatto rientro a Nuoro dove si è dedicato alla politica e all’insegnamento. Docente al Liceo Classico, in seguito è stato Preside all’Istituto Magistrale. Filosofo e sottile pensatore, studioso e cultore di opere in lingua sarda, amava la letteratura e la pittura, suoi i disegni che impreziosiscono il testo. Ha scritto racconti, ha tradotto in sardo la Divina Commedia e il Vangelo, numerosa la sua produzione inedita di saggi, racconti e quadri d’ambiente.
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