di Vitale Scanu
Ogni giorno 45mila lavoratori italiani delle provincie di Sondrio, Como e Varese varcano il confine per recarsi al lavoro nel Canton Ticino. Si chiamano frontalieri e sono in pratica gli emigranti quotidiani verso l’estero. Sono una forza considerevole per l’economia ticinese, composta di circa 20.000 imprese, con poco meno di 160.000 posti di lavoro. Si tratta in gran parte di piccole e medie imprese. Il 47% della popolazione attiva è costituito da stranieri, mentre quasi la metà della manodopera straniera è frontaliera.
Due settimane fa sono apparsi sui muri di Lugano alcuni disgustosi maxi manifesti di gusto razzista che presentavano l’equazione: frontalieri uguale topi che divorano pericolosamente l’economia svizzera.
Bisogna dire che la presenza straniera, forse dettata anche da un radicamento profondo di gelosia della propria identità, è stata sempre poco ben vista in territorio elvetico e periodicamente riemerge come questione politica. Basta ricordare la famosa campagna contro l’inforestieramento, nota come “iniziativa Schwarzenbach”, che culminò con un referendum popolare il 7 giugno 1970. La votazione segnò un record di affluenza alle urne (75% di votanti, percentuale eccezionale per la Svizzera). La proposta, con un 54% di voti contrari, non fu accettata ma comportò comunque una riduzione dei permessi di lavoro disponibili. Se accettata, l’iniziativa avrebbe limitato il numero di lavoratori stranieri in Svizzera (il 54% dei quali erano italiani) al 10%, ed avrebbe comportato l’espulsione di 300.000 stranieri nell’arco di quattro anni.
I frontalieri sono stati sempre la classe di lavoratori che più si avvicina al precariato, quella più sensibile nelle perturbazioni internazionali sul lavoro. Una nostra iniziativa nazionale che interessi la Svizzera, coinvolge primariamente, come una ritorsione ricattatoria, il loro status lavorativo. E’ quanto successo come conseguenza dello scudo fiscale posto in essere l’anno scorso.
Un gruppo sparuto di frastornati politici della UDC (Unione democratica di centro), il cui leader è il signor Pierre Rusconi, senza tenere in conto tutte le implicazioni in merito, ha proposto questa disgustosa iniziativa dei maxi manifesti contro i frontalieri, massimamente quelli italiani, visti come un’orda animalesca che, attraverso un dumping salariale incontrollato, rovinerebbe il mercato lavorativo elvetico. ”Scusarmi con i frontalieri? – dice Pierre Rusconi, presidente dei Democratici di centro e ideatore della campagna – Ci penserò quando Tremonti si scuserà con noi per aver detto che la Svizzera è la caverna di Alì Babà e i quaranta ladroni”.
Ma i lavoratori frontalieri non costituiscono certo un’invasione incontrollata. La richiesta di manodopera estera è perfettamente sotto controllo: periodicamente essi devono rinnovare il permesso di lavoro e inoltre fanno da volano (ecco il precariato) in tempo di crisi, quando i primi ad essere licenziati non sono i ticinesi ma i frontalieri. Secondo, questi lavoratori, molto preparati e volenterosi, sono ricercati dalle imprese che necessitano di manodopera qualificata. Essi costituiscono il motore della ripresa, quando l’economia ricomincia a girare. “Sono figure indispensabili per le aziende e nell’industria coprono ruoli che rimarrebbero altrimenti scoperti. E’ insostenibile anche l’accusa di dumping, per cui questi operai ruberebbero posti di lavoro ai ticinesi: nell’industria vigono i contratti collettivi e quindi chi viene da fuori ha gli stessi diritti degli altri”, dice Stefano Modenini, direttore dell’Aiti (Associazione industriale ticinese). “Questa iniziativa mi pare una campagna pubblicitaria vergognosa – dice Luca Albertoni, direttore della Camera di Commercio e presidente della Commissione tripartita in materia di libera circolazione delle persone -. Abbiamo necessità di questi lavoratori, come abbiamo bisogno di personale superspecializzato che magari deve arrivare dall’Asia o dalla Russia. Basti dire che il Ticino negli ultimi dieci anni ha quintuplicato il suo export. Si può discutere sui frontalieri, ma queste campagne non hanno senso. E’ sbagliato e controproducente”. Questa imprudente campagna mediatica chiamata “Bala i rat” ha portato anche gli imprenditori ticinesi a prendere una posizione ufficiale: “I lavoratori frontalieri sono indispensabili all’economia ticinese e vanno sovente a coprire posizioni professionali non coperte da lavoratori residenti. I settori vitali della nostra economia, quali l’industria, la costruzione, l’alberghiera, la ristorazione, il settore sanitario e molte attività non esisterebbero in Ticino senza la presenza dei lavoratori frontalieri, che contribuiscono a creare posti di lavoro anche per i residenti”.
Essi sono invece sfavoriti, primo perché, essendo tassati alla fonte, a parità di lavoro e di retribuzione, non possono dedurre le spese di trasporto, vitto e altro rispetto ai colleghi ticinesi. Se restano disoccupati ricevono un’indennità inferiore al 50% della loro retribuzione, e per un anno soltanto, nonostante sulla busta paga figurino le stesse trattenute dei colleghi ticinesi. E sono tassati con le stesse aliquote, sovvenzionando le assicurazioni sociali ticinesi pur non usufruendo degli stessi servizi pubblici: scuole, ospedali, infrastrutture. Il 38% delle loro imposte è ristornato ai Comuni di provenienza, ma ben il 62% resta in Ticino. Senza contare tutto quello che un lavoratore frontaliere lascia personalmente nel Cantone per il vitto, la benzina, gli acquisti.
Con tutto ciò, in Italia, dal ministero delle Finanze, i frontalieri sono stati equiparati ad evasori fiscali che, usufruendo dello scudo fiscale portano all’estero capitali fraudolenti, come i camorristi, insomma. Per fortuna il caso si è risolto in meglio, secondo logica.