“LA VOCE DEL LECCIO”, LA NOVITA’ EDITORIALE DI TONINO OPPES DEDICATA ALLA SARDEGNA

Tonino Oppes nella foto di Mauro Cannas

di MANOLA BACCHIS

La voce del leccio a Donori per la prima.

“La memoria e la cultura sono il volano per andare avanti”. Sono queste le parole di Tonino Oppes, che il 22 novembre 2018 è stato accolto a Donori, piccolo paese con deliziose case in granito e in ladiri, per la presentazione della sua ultima novità editoriale “La voce del leccio”. La serata, svolta nella sala dell’ex Monte Granatico, organizzata dal Comune di Donori, la Biblioteca Comunale e il Salotto Culturale, è stata condotta dalla bibliotecaria Simona Bande. Ad accompagnare tutti i presentile letture di Luigi Olla,e sul grande schermo le immagini del libro si abbandonavano al pubblico, come ad accarezzare i ricordi, evocando emozioni e suscitando numerose domande.

Siamo negli anni Sessanta del secolo scorso. I piccoli paesi dell’Interno della Sardegna si assottigliano, come candele, e oggi si rischia di non comprendere che il domani è già passato.

E’un affresco antropologico di una Sardegna che corre il pericolo di essere cancellata per sempre quella che ritroviamo nella nuova opera di Tonino Oppes, La voce del leccio (Domusdejanas, 2018 :ill.,10 euro).

Pagine dove le parole sono fotogrammi che si proiettano in successione come in un film:emozioni e sentimenti immortalati su un foglio bianco si intrecciano, attimi eterni nella loro fugacità, che con semplicità diventano solenni. Sono come immagini in bianco e nero che scorrono nella pellicola e ti catturano, al punto di non riuscire a fare pausa. Si coglie ogni minimo e prezioso dettaglio. Riesci a vedere, a sentire, a percepire il dolore della nostra gente, della nostra Terra.L’avverti sulla pelle quella sofferenza…Poi, il bianco e il nero si diradano e si sprigionano i colori e, come farfalle, volteggiano: è gioia, è amore, è la spensieratezza dell’infanzia e della gioventù, è un guardare avanti nonostante tutto.

La profondità della narrazione lascia col fiato sospeso; la sensazione è quella un viaggio nel tempo, di abbracciare genitori e nonni, di rivederti bambino, di assaporare momenti che sanno di un profumo antico e delicato, come i fiori di lavanda o di elicriso nella notte di san Giovanni…

 

La penna di Tonino Oppes concede e dedica ritratti di volti e paesaggi senza eccedere, lascia liberi nell’immersione, e rende vicini tutti i personaggi; così Tzìu Pedru, la moglie Frantzìsca, i loro figli, i nipoti, e la loro famiglia, è come se li conoscessimo davvero, da sempre. Forse è proprio così, perché in fondo sono storie di vita quotidiana, è la nostra Storia.

Storia che l’artista Giuseppe Carta cattura con la sua tavolozza e dona a La voce del leccio un tocco di magia: i colori tenui arrivano dritti al cuore, lasciano trasparire luce ed ombra, fantasia e realtà, e con garbo si posano sulla copertina. La composizione diventa racconto, arricchito al suo interno dai disegni di Daniele Conti e dalle note poetiche di Antonio Maria Pinna con Pedras, e di Anna Cristina Serra con Mata manna de su coro.

Il lettore tra immagini, parole e poemi, viene catapultato nella scena:

«… si era alzata piano e, muovendosi al buio, simile a una cerbiatta impaurita, due piccoli passi avanti e uno indietro, era andata verso la finestra proprio mentre il rumore che proveniva dalla piazza diventava sempre più confuso… “Su carru ‘e sos mortos, il carro dei morti!” …»

Una visione durante la notte che segnò un presagio di ciò che avvenne da lì a breve…

Lo vedi, chiaro, come se fosse davanti ai tuoi occhi, e chi l’ha vissuto davvero ripercorre attimi di sgomento e di smarrimento:

«L’immagine del fuoco che si avvicinava rapidamente… ricordi dolorosi, sempre più nitidi, riaffioravano nella sua mente… fiamme alte si sovrapponevano agli alberi, incenerendoli in un istante; nubi di fumo nero volavano basse inghiottendo ogni forma di vita, fatiche, speranze; i volti dei genitori in lacrime si dissolvevano con i corpi carbonizzati delle pecore…»

Adesso è rosso, rosso fuoco, il colore della penna,pare accendersi su quei fogli candidi… le fiamme bruciano, uccidono, dilaniano anime e corpi; il vento è complice, soffia e soffia… cenere e fuliggine ovunque!Gli animali tentano una via di fuga, una lingua di fuoco li cattura.

La falce della morte ha inferto, di netto, il cuore, ancora una volta, della Sardegna.

Quella cenere, leggera e impalpabile come la seta, pare quasi ad aver pietà, e un velo sottile si distende su corpi inermi di giovani, anziani e bambini, avvolge quelle anime, innocenti vittime, le ennesime vittime!, di un dramma che si mostra in tutta la sua crudeltà e tragedia.

Pedras! Solu sas pedras e carenas/ in custa terra mia ch’hat restadu… Pobera terra mia, a luttu cuguddada./  Pro te canto s’attitu in custu logu/  cun làgrimas chi sàmunan sas pedras…   Pietre! Solo le pietre e scheletri/ in questa terra mia sono rimasti…/Povera terra mia, vestita a lutto. / Per te canto il lamento funebre in questo luogo/ con lacrime che lavano le pietre.

Madri, mogli e figlie in lacrime, unite in preghiera, stringono il rosario, guardano il cielo, e ora invocano la pioggia: Madre Natura con le sue lacrime disseta la terra e ridona ad essa quanto – e a volte anche di più –alcuni dei suoi figli le avevano strappato atrocemente con impetuosi roghi e colpi di accetta.

Solo lui, il grande leccio, fu risparmiato, il destino è stato clemente: «…di quel mare verde, ricco d’ogni specie di selvaggina, restava solo qualche traccia come il grande leccio. “Sega tottu! Taglia tutto!” urlavano i nuovi padroni agli operai chiamati a completare con la scure e con grandi lame dentate l’opera di distruzione avviata dall’incendio di qualche giorno prima. “Meno alberi ci sono, meno ne brucia il fuoco. Basta! Troppi danni abbiamo subito. Sega, sega tottu! Taglia, taglia tutto!”

Quell’albero, non è un semplice albero, è come un patriarca: con la sua grandezza,delicata come un bocciolo, accarezza il ricordo,elargisce coraggio, sfiora il cielo e le stelle; con voce roca e soave, come quella di un vecchio saggio col viso rigato dal tempo, scuote le coscienze, evoca memoria e storia. Sfiora le corde dell’anima.Non è nostalgia, è un lascito immane che andrebbe altrimenti perduto.

Giungi all’ultima pagina. Chiudi il libro, lo posi sul comodino, poi ti rivolgi a lui, al grande leccio, ormai parte di te:

Caro leccio, Elighe meu…

«Mata manna de su coro/ Storia e Memoria/ de su tempus nostru chene acabbu/ chi Mamai Terra/ achistit e spartzinat./ Perdona si s’omini…»

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