di BELINDA BOEDDU
Dopo cinque anni, è in libreria “L’uomo che non vorresti incontrare”, il nuovo romanzo di Fabio Forma (Bibliotheka Edizioni). L’attesa è stata pienamente premiata, perché ci regala una storia densa di emozioni, suggestiva ed appassionante, con uno stile rigoroso ma non manierista, che cattura subito l’attenzione del lettore attraverso pagine che scorrono veloci, in una lettura coinvolgente e immersiva, in cui il mondo raccontato si riversa nel reale, dando un senso più profondo di verosimiglianza. Fabio nella scrittura mette tutto se stesso, non si risparmia, soppesa e valuta attentamente ogni piccolo dettaglio, con percezione e sensibilità scrive pezzi di storie di tutti noi, lascia però deliberatamente delle parti in sospeso, dandoci la possibilità di immaginare e sognare, a seconda della predisposizione e del vissuto di ciascuno. Il lettore infatti proietta i propri sentimenti e si immedesima nelle vicende di Alain e Fabrizio, i due protagonisti, stratificandone i significati, con l’impressione di essere parte integrante della storia. Vi faccio conoscere meglio Fabio e il nuovo libro attraverso le sue parole.
Raccontaci quando è nata la tua passione per la scrittura. C’è un’immagine nella tua memoria che ti riporta al momento in cui hai sentito che era giunta l’ora, o l’esigenza,di mettere nero su bianco le tue idee? È nata a quattordici anni, un po’ per caso. Non ricordo il momento esatto perché non credo si possa parlare di un momento, ma piuttosto di una somma di fattori, caratteriali, che portano una persona a scrivere, a raccontare a un foglio bianco quel che si sta vivendo. La scrittura è un mestiere intimo, molto più di qualunque altra conversazione, comprese quelle che teniamo con noi stessi, di tanto in tanto. Equivale ad un flusso di coscienza normato dalle regole della grammatica e nient’altro. In questo senso, solo quando scrivo riesco a essere davvero me stesso.
Il tuo nuovo romanzo è ambientato a Borore, il paese in cui vivi, mentre Alain arriva da Parigi. Che legami hai con questi luoghi, cosa rappresentano per te? Borore è il mio paese, ci ho passato tutta la vita, eccetto tre anni vissuti a Milano durante il periodo dell’Università. Ho un rapporto profondo col mio paese. Mi piace, non lo cambierei con un altro posto. Ha molte particolarità, anche molte carenze, certo. La città mi manca di tanto in tanto, ma il pregio di Borore è di essere lungo la SS 131, che idealmente fa sentire vicina quasi tutta la Sardegna. Chi vive lungo la 131 è come se vivesse in contemporanea a Cagliari, Sassari, Nuoro, Oristano e Olbia. Basta prendere la macchina e in un’ora si arriva quasi dappertutto. Parigi invece è una città che amo, la più affascinante che io abbia incontrato finora. Ogni luogo ha un’anima, Parigi è inarrivabile in questo senso. Se potessi, credo che passerei otto mesi l’anno a Borore e i restanti quattro a Parigi. Anche se ho un timore reverenziale nei confronti della Ville Lumière che mi fa dire, che forse è un bene che io non ci viva, perché vivendoci, facendola diventare una consuetudine, probabilmente perderebbe quel fascino etereo che ora ha. È questo il paradosso di ogni scrittore, conoscere una realtà per poterla descrivere, ma non viverla mai fino in fondo, piuttosto sfiorarne l’essenza, bazzicando i bordi, da osservatori quasi mai partecipanti, così da poterla descrivere con la giusta immersione, e al contempo il dovuto distacco.
Alain e Fabrizio, sono le due facce di una stessa medaglia, dissimili per tanti aspetti ma uguali per altri e inevitabilmente le loro orbite andranno a collidere e a scontrarsi. Hai scavato nelle pieghe profonde dell’animo di entrambi, e con un lavoro introspettivo gli hai concesso una chance di rivalsa, nei confronti di una vita ormai apparentemente delineata. Come hai pensato a questi due personaggi antitetici? Qual è stato il percorso per definirne le qualità peculiari? L’inizio di un nuovo romanzo per me comporta sempre un viaggio interiore. Trovo in me stesso i miei protagonisti. Poi, solo successivamente, li dissocio dalla mia persona e comincio a dargli un volto, caratteristiche umane, personalità proprie. Io convivo coi miei personaggi per tutta la durata della stesura del romanzo, e talvolta continuano a farmi visita anche ad anni di distanza, perché mi affeziono a loro, e loro forse si affezionano a me. Lo so, sembra il discorso di un folle, ma è esattamente quello che accade. Perché un personaggio letterario abbia spessore deve essere conosciuto a fondo dal proprio autore, deve diventare un suo familiare. Solo così può superare l’esame più duro, quello di apparire reale.
Il viaggio è un tema ricorrente in letteratura,è una metafora vista non solo come scoperta di un luogo fisico, ma come cammino umano, inteso come percorso di crescita interiore,che modifica la percezione e la rappresentazione del mondo e di noi stessi. I due personaggi, nell’andamento narrativo,visitano parecchi luoghi e anche tu hai vissuto diversi anni a Milano, percorri tanti chilometri in auto verso mete sconosciute o compi dei viaggi fuori dalla Sardegna. Cosa rappresenta per te conoscere posti nuovi? Significa scoprire semplicemente dei luoghi o apporta anche una nuova conoscenza di te e del tuo approcciarti alla vita? Il viaggio è il modo migliore per arricchirsi, il miglior investimento possibile. Fa sì che ci innamoriamo di luoghi che prima ignoravamo semplicemente perché non li conoscevamo, fa sì che ci manchino una volta tornati e fa sì che ci manchi la nostra stessa casa quando il viaggio diventa molto lungo. Non scegliamo di nascere, ma da quel momento intraprendiamo un percorso lungo tutta la nostra esistenza terrena, che ci accresce rendendoci quel che siamo. Certo, il viaggio fisico è metafora della vita, la metafora più riuscita.
Oltre ai due giovani, nel libro ci sono diversi personaggi che si rendono protagonisti di avventure disarmanti, divertenti e inaspettate. Da dove trai ispirazione per le tue storie? Quando scrivo sono dissacrante, politicamente scorretto, sincero fino al midollo. Lo devo al mio lettore, è il mio modo di dimostrargli rispetto. Se scrivessi quello che la maggior parte delle persone vorrebbe che scrivessi, non sarei me stesso, e chi mi conosce bene lo sa. Spesso quelle descritte sono esperienze vissute da me, in altri casi da amici cari che me le raccontano nel dettaglio. In qualche caso le invento perché siano funzionali alla storia. Ma la maggior parte appartengono al mio vissuto. La penso in modo opposto rispetto a Pirandello quando affermava “La vita o si vive o si scrive, io non l’ho mai vissuta, se non scrivendola.” Io ho un rapporto diverso con la scrittura. Prima vivo e poi descrivo. Per questo scrivere un romanzo spesso mi richiede anni. Mi rifaccio piuttosto a Charles Bukowski, il mio scrittore preferito, per il suo indubbio talento narrativo ma soprattutto per la profonda umanità profusa in ogni suo libro, come in ogni poesia. Era un alcolizzato che non disdegnava le risse e viveva spesso miseramente e ai confini della società. Ha raccontato l’altra America, quella degli ultimi, dei volutamente dimenticati. Ha raccontato tutti noi, perché non siamo quel che tentiamo ossessivamente di mostrare, ma siamo umanamente imperfetti.
Con un laborlimae accurato e dettagliato, descrivi persone e luoghi come pennellate ben definite, conferendo al libro un aspetto suggestivo e realistico, mai patinato. Quanto è importante lo stile in uno scrittore? La scrittura è un artificio, non nasciamo scrittori, perché è la tradizione orale la madre di ogni storia. Scrivere comporta il fatto di raccontare storie stando all’interno dei confini dettati dalla grammatica, confini abbastanza ampi da permetterci di descrivere con uno stile personale, differente da quello di chiunque altro. Quindi posso affermare che lo stile è lo scrittore stesso. Le storie sono già state raccontate tutte, parlare di novità in letteratura è ridicolo. L’unica differenza, una volta scelte le tematiche da affrontare in un romanzo, la fa proprio lo stile.
Su Facebook hai la pagina personale “Fabio Forma autore”, nella quale i lettori lasciano le loro impressioni e le recensioni sul romanzo. Cosa pensi dei social network? Per te rivestono un ruolo importante nella vita odierna? Credo che Internet e per estensione i social network abbiano cambiato il mondo. Ecco perché ne “L’uomo che non vorresti incontrare” parlo di Facebook. Fino a solo quindici anni fa si viveva in modo molto differente rispetto a oggi. I rapporti erano più veri e più limitati. Non avevamo la possibilità di parlare in diretta con chiunque in qualsiasi parte del mondo. I social ci hanno avvicinato persone altrimenti irraggiungibili, ma al contempo ci hanno allontanato chi ci sta a fianco. Non è raro entrare in un locale e vedere cinque ragazzi seduti allo stesso tavolo non guardarsi in faccia, non comunicare tra loro, essendo assorbiti dagli schermi del loro cellulari. Questo è il prezzo enorme che paghiamo al presunto “tutto e subito” che ormai ci pare scontato. Nella mia esperienza virtuale durata qualche anno, credo di aver capito che siamo noi a dover regolamentare noi stessi e quanta vita vogliamo mettere a disposizione su Facebook, ora su Instagram. Non mi sento di demonizzarli, ma credo vadano regolamentati. Perché se un adulto riesce a discernere (e non sempre questo avviene, la tecnologia è la droga del terzo millennio), per adolescenti o peggio bambini, la questione è più complessa, ed in alcuni casi pericolosamente fuori controllo. Questo mi preoccupa, perché siamo di fronte allo stato nascente che anticipa la rivoluzione virtuale. Viviamo un momento storico di enorme importanza, di cui ancora non ci rendiamo conto. Prima avremo coscienza di questo, meglio, e più tempestivamente, riusciremo a coniugare in pace la nostra vita reale con quella virtuale.
Oltre al primo romanzo “Carne da demolizione”, hai pubblicato, insieme ad altri autori, dei racconti nell’antologia Uno sputo di cielo. 27 racconti senza paracadute e ne Le guide ai sapori e ai piaceri de La Repubblica. Che progetti hai nel tuo futuro letterario? Per Natale uscirà un mio pezzo nell’antologia “Sardi per sempre” (Edizioni della sera), un racconto intimista e surreale ambientato a Nuraghe Losa. Ho scritto un romanzo a quattro mani già terminato, che credo uscirà nel 2019. Ho almeno altre tre romanzi in programma, fra cui la biografia di Fabio Fognini, il mio tennista preferito, e un romanzo d’azione, ma non solo, che descriverà una corsa mortale ambientata interamente in Sardegna. Ce li ho già tutti in mente, ho solo bisogno di una decina di anni per metterli nero su bianco.