di LUCIA BECCHERE
«Raccontare Orune è il modo per raccontare se stessi e conoscersi», scriveva l’intellettuale Bachisio Zizi che con Sebastiano Mariani (Orune 1948) autore di Ghirthalos. Orune fra la storia e le storie
(Carlo Delfino editore) condivideva le stesse pene. Il libro è un viaggio attraverso la memoria delle cose, un atto d’amore alla sua terra e in cui si coglie tutta la sofferenza di chi quella terra non può viverla fino in fondo ma che intende custodire l’immenso patrimonio affettivo che si porta dentro con la speranza che tutti i suoi figli, preziosa ricchezza umana sparsa per il mondo, possano sanare “l’anemia del vivere” che si è impossessata del suo popolo. Terra di antiche bellezze bagnata da lacrime e fatiche, coraggiosa e capace di sfidare le avversità, dove il lavoro è da sempre sinonimo di lotta per la sopravvivenza e che quindi va difesa per sfamare l’uomo.
Arretratezza economica, morfologia del terreno, cattivi amministratori, tare patologiche e antropologiche hanno generato malessere in un territorio povero costellato di lutti e croci, paese in lotta contro le istituzioni per proteggere i propri diritti e dove guerre, carestie, incendi, siccità e cattivi raccolti hanno prodotto sofferenze infinite.
Orune, popolo di pastori che sfamava le pecore su terre demaniali, terre di tutti e di nessuno con fragili equilibri sconvolti dall’editto delle Chiudende (1820), visse a lungo un «nomadismo domestico » e una vita precaria in un tessuto sociale dove l’attività principale era la pastorizia. La disoccupazione si compensava col furto, la rapina e il sequestro. Troppi bannidos, in guerra fra loro e con lo Stato, hanno perso la vita in imboscate o giustiziati. In un clima fatto di sospetti e diffidenze, l’agorà del paese era l’attuale piazza Remigio Gattu, luogo privilegiato per le passeggiate serali e per i comizi politici e su cui si affacciavano Municipio, scuole, caserma e dove si potevano carpire inconfessabili segreti.
Un popolo oppresso e sfruttato per 25 secoli, indomito e fiero, capace di ricomporsi come entità-nazione che ha saputo tramandare codici, usanze, tradizioni e rivendicare il suo passato al grido di su connottu. La commemorazione dei defunti con offerte, viatico per l’anima verso il paradiso, è un filo sottile che lega vivi e morti e anche la morte si traduce in metafora solenne «uccello invisibile che si annida nel cuore di ogni uomo, scandita dal battito leggero delle sue ali che come petali vengono innaffiate dalle lacrime e dalla preghiera» mentre il canto accompagna da sempre il pastore nei silenzi delle sue solitudini.
Storia come madriche cioè lievito madre per consegnare intatti i sapori, i profumi del sofferto cammino di un popolo. Nel testo tutto il sentire dell’autore, il grande amore che lo unisce alla sua terra, la speranza che i suoi figli ritrovino l’equilibrio con la storia, affermino le proprie idee e risveglino i cuori per costruire un futuro glorioso dove anche le donne facciano la storia sfidando atavici pregiudizi e in nome della propria libertà quietino le disamistades.
L’autore ripercorre il cambiamento: i primi segni del capitalismo, la prima azienda per la produzione dell’elettricità nel ’26, il sorgere di ca- seifici e negozi, la cooperativa dei pastori nel ’38 (fallirà negli anni ’70-’80), nel ’46 la prima sindaca donna, Margherita Sanna educatrice laica e antifascista che con grande umanità si adoperò per migliorare il suo paese. A seguire l’inurbamento e la scuola per tutti, la POA dispensa aiuti alle famiglie, la Fondazione Rockefeller debella la malaria. Fiorisce tutto un mondo artigiano, falegnami, muratori, fabbri e sarti, il primo motocarro sostituisce la trazione animale, nasce la prima squadra di calcio e sta per decollare il Piano di Rinascita. Ma la pastorizia tarda a rinnovarsi.
Orune ha vissuto il domicilio coatto, il confino e la fame ma dopo gli anni ’50-’60 si apre al cambiamento pur con mille contraddizioni, la recrudescenza di furti, sequestri ed estorsioni riaccendono nuovi delitti. Storie tristi che l’autore ci racconta con grande partecipazione emotiva. All’industrializzazione segue l’esodo verso il continente e Orune si svuota. Nonostante la presenza di sindaci illuminati e di intellettuali, la cultura non riesce a mediare fra pastori e istituzioni.
L’autore non dimentica il ruolo della scuola per combattere l’analfabetismo. Nel 1959 Orune si era dotata della scuola di avviamento e nel 1962 della scuola media unificata, oggi può farsi vanto dei suoi figli migliori: insegnanti di grande spessore (numerose le donne), filosofi giuristi (Antonio Pigliaru) avvocati, redattori, saggisti, letterati, scrittori nonché esponenti del clero (come monsignor Ignazio Sanna) e della politica. Nelle pagine del libro sfila una miriade di personaggi ma anche riti e consuetudini di vita. Ricordi nitidi che il tempo e la lontananza non hanno scalfito nella sua memoria. Storie di bambini che trascorrevano le loro giornate nella strada e nelle piazze quando il gioco era consuetudine di vita e momento socializzante per i giovani mentre gli uomini si ritrovavano nei bar. Come non ricordare l’iniziazione alla vita dei giovani orunesi, ( su tirazu) cioè la visita di leva che sanciva l’ingresso nel mondo degli adulti. Ma è al pastore che Sebastiano Mariani dedica le pagine più belle del suo libro, pagine di raffinata poesia nelle quali nostalgia ed emozioni diventano un canto intimo che celebra i silenzi del pastore che percorre le sue solitudini, quando l’albero era la sua casa e a scandire il tempo erano i battiti del suo cuore, i latrati del suo cane e il belare delle sue pecore. Melodie di lamenti innalzati al cielo.
Sono preziose pennellate di un mondo onirico perduto che richiamano anche il luogo magico della sua infanzia “Il cantiere di Santa Bonaèra” ma anche pagine amare del banditismo sardo che l’autore ripropone con amarezza e sofferenza quando con la costituzione dei più temibili latitanti si chiudeva l’era terribile del banditismo sardo e si cercava di voltare pagina. Perché tanto sangue? S’interroga di fronte ad un elenco nutrito di vittime che mal si conciliavano con un paese che aveva raggiunto una scolarità elevata. Forse carenza di lavoro, subcultura, isolamento, fuga degli intellettuali oppure tutte queste cose insieme? Difficile analizzare il fenomeno.
Ma Orune è anche il ballo, simbolo di bellezza e di armonia eicanti a tenores, «racconti di uomini che cantano e non di canto fatto da uomini» che racchiudono e consacrano secoli di storia. Melodie e vibrazioni che evocano neuro associazioni da cui emergono echi lontani che cantano storie di vite perdute e mai dimenticate.
per gentile concessione de https://www.ortobene.net/