di Gianfranco Pintore
L’assedio di un Parlamento, in qualsiasi parte del mondo, Sardegna compresa, è segno di rottura fra rappresentati e rappresentanti. Insistere, come da noi si fa con frequenza, con questi assedi (operai, studenteschi, contadini e pastorali) da la misura di come questa rottura sia probabilmente insanabile, ma anche segnala che il nostro Parlamento regionale non gode di prestigio e di autorevolezza. Non ricordo, in altre regioni europee, che manifestanti accerchino i parlamenti; vi fanno sitin, vi sfilano sotto, vi manifestano intorno, ma non li assediano e, men che meno, li occupano, come è successo ieri da parte di una delegazione di pastori. Giornali e televisioni, in Sardegna e in Italia, hanno raccontato e continuano a raccontare la dura manifestazione dei pastori del Mps, gli scontri fra polizia e manifestanti e, secondo le rispettive simpatie o appartenenza politica, si schierano con la prima o con i secondi. Per alcuni è una buona occasione per mettere in risalto la “natura violenta” del mondo pastorale sardo, per altri è una ghiotta opportunità per accusare il governo italiano e il suo ministro Maroni, additato come responsabile della violenza della polizia. Un dèjà vu su cui converrà sorvolare, almeno fino a quando i media torneranno a fare i media e non i sostituti dei partiti. Non mi pare, invece, che ci sia stata consapevolezza della severità di questo assedio del Parlamento sardo, come non c’è stata quando a circondarlo sono state altre categorie sociali. Il Consiglio regionale è vissuto, ieri dai pastori e prima di loro da altri lavoratori, come una controparte, ruolo che tradizionalmente è assegnato, semmai, al governo. Forse è solo l’esasperazione dei pastori, che sentono sulle loro spalle una crisi disastrosa, a dettare questa confusione di ruoli e di responsabilità o forse è la diffusa sensazione che la politica (tutta la politica) non è più in grado di risolvere i problemi. Con la sua autoreferenzialità, la politica (e non starei a sottilizzare sugli schieramenti) si è avvitata intorno ai problemi suoi. La maggioranza intorno alla sua tenuta, le opposizioni intorno alla loro volontà di rovesciare con tutti i mezzi (anche quelli giudiziari) l’attuale governo regionale. Non esiste la contezza che sono un tempo enorme i quaranta giorni trascorsi dall’impegno preso con i pastori di avviare a soluzione i loro problemi. E c’è, invece, una sorta di impudenza nell’annuncio della disponibilità a confrontarsi sui problemi al centro della vertenza, così come, però, è impudente fare della demagogia a buon prezzo. Temo che la politica sarda non abbia capito ancora che cosa significhi affrontare con gli strumenti ad essa consueti (la promessa, la demagogia, il dire e non dire) il mondo dei pastori sardi e la cultura di cui sono portatori. In sessanta anni di autonomia non si è mosso granché, se oggi lo fa con la forza e la determinazione mostrata ieri, qualcosa di decisivo si è rotto. La storia insegna che quando i pazienti si muovono si è alla vigilia di importanti sconvolgimenti. Ieri, il Parlamento dei sardi ha perso l’occasione, forse irripetibile, di uscire dal palazzo e di sedere in assemblea con i pastori e di mostrare come non siano vere le accuse, che ad esso vengono mosse, di vivere in una torre d’avorio. So che è molto diffusa l’opinione che quella dei pastori sia una vertenza come altre. Ma questo vuol dire che si sta smarrendo la coscienza del fatto che il mondo di “noi pastori” non è solo pecore, formaggio, produzione, contributi. In quel mondo sta l’epicentro etnico della nostra nazione. Spesso i singoli pastori lo dimenticano o forse non ci fanno caso. Ma sapete qual è la prima cosa che hanno deciso di fare dopo il fermo di una mezza dozzina di loro? Si sono preoccupati di fare una colletta a favore “de sos rutos in manu de sa zustìssia”. Come da secoli fanno, con sa ponidura o sa paradura che dir si voglia, ogni volta che sa zustìssia o un fulmine, l’uomo o la natura, colpisce un disgraziato, unu malassortadu.