di CHIARA SCHIAVONE
Suor Anna Maria Zuddas, 65enne di Tortolì, ci parla del Mozambico e della sua scelta di dedicare la sua vita agli altri.
Come è nata la sua vocazione? Ricordo di aver sentito chiaramente la voce del Signore dirmi: “Tu un giorno diventerai missionaria.” All’epoca avevo solo 14 anni. Ero iscritta all’ Azione Cattolica ed amavo trascorrere il tempo all’interno della biblioteca di Sant’Anna. Fu così che iniziai a leggere i libri sulle missioni, a documentarmi. Dovetti però combattere a lungo contro questo mio grande sogno poiché non me la sentivo di lasciare soli i miei due fratelli dopo la morte di mia madre.
A che età decise di partire? La storia è un po’ complessa. A 21 anni, raggiunta la maggiore età, mi recai a Cagliari. In seguito, dopo aver conseguito il diploma di maestra elementare, entrai in seminario. Insegnai per 20 anni nelle scuole materne. Attesi a lungo di partire come missionaria all’estero, ma l’associazione Ad Gentes, nonostante le mie continue richieste, pareva non volesse offrirmi questa opportunità. Nel 93 decisi di fare un ultimo tentativo. Scrissi una lettera alla superiore generale di Parigi e vi inserii anche queste parole: “Questa è l’ultima volta che cerco di ricevere una risposta positiva. Perciò, indipendentemente da quale sia la vostra scelta, interpreterò il tutto come volontà di Dio.” Dopo un mese soltanto mi informarono che sarei potuta partire. In quel periodo lavoravo ad Ossi e dunque dovetti attendere l’arrivo della mia sostituta prima di partire. Nel 94 andai a Parigi nell’attesa di prepararmi e di ricevere una destinazione da parte della superiore generale. Il Mozambico mi attendeva ed avendo il portoghese come lingua ufficiale, dovetti impararlo recandomi a Lisbona. Dopo due mesi raggiunsi l’Africa.
Come è stato l’impatto con la realtà africana? Che sensazioni ha provato? Ammetto di essermi sentita delusa dal primo impatto. Attraverso la lettura, infatti, mi ero fatta un’idea completamente sbagliata della situazione. Mi aspettavo di trovare un ambiente diverso, una savana brulicante di animali. Invece il Mozambico era appena uscito da una guerra civile durata 16 anni. Era tutto distrutto, la gente soffriva e si cibava di qualunque bestia. La mia prima tappa fu Maputo. Trascorsi là il periodo di integrazione e dopo otto mesi mi recai a Tete. Quest’ultima città si trova al centro del Mozambico ed è il posto più caldo della zona. I primi quindici giorni sono stati terribili. Ho pensato spesso che non ce l’avrei fatta.
Può delinearci un breve quadro della società africana? Penso che se si rendessero conto di tutte le ricchezze che possiedono, a quest’ora nessuno vivrebbe più nelle strade facendosi sfruttare dagli stranieri. Ciò che manca è l’istruzione. In 20 anni abbiamo costruito scuole elementari (anche per adulti) riuscendo ad ottenere ottimi risultati. A Tete ho insegnato a tantissimi bambini e molti di essi, anni dopo, sono riusciti a laurearsi. Il nostro obiettivo è quello di istruire soprattutto le bambine. Abbiamo un detto “Istruire una donna equivale ad istruire un popolo”. La donna infatti si occupa di tutto e a differenza dell’uomo ci tiene a trasmettere ai figli quello che ha imparato. I genitori preferiscono che i bambini studino nelle scuole cattoliche poiché, a differenza delle scuole pubbliche, noi insegniamo loro a studiare la coscienza. Anche la sanità qui è molto scarsa. Gli ospedali e le farmacie sono distanti e poco forniti. Spesso manca la corrente e di conseguenza le operazioni avvengono a lume di candela. Da alcuni anni siamo però riusciti a mettere in piedi un ospedale a Maputo dedicato alle persone malate di HIV.Il cibo scarseggia e dunque mangiano di tutto. A me piacciono le foglie delle verdure immerse nel latte di cocco ma mi sono promessa che, proprio come essi non mangiano le lumache, io non assaggerò mai un insetto. Spesso cucino per loro. Delle volte faccio la pasta e la carne arrosto e da poco sono riuscita a trovare della mozzarella quasi adatta a preparare le nostre seadas.
Come sono organizzati i villaggi? Ognuno di essi ha una propria lingua ed il portoghese lo conosce solo la gente istruita. Inizialmente ci riesce sempre difficile comunicare con gli abitanti. Abbiamo trovato 33 villaggi dispersi di gente che non aveva mai visto una persona bianca. Io ho insegnato loro a cucire. In Africa si pratica la poligamia e non è raro trovare villaggi di solo 7-8 capanne: una per l’uomo e le altre per le mogli e i figli. Ecco perché i bambini scappano di casa. Purtroppo non possiedono la nostra stessa idea di famiglia.
Ha mai pensato di tornare a vivere a Tortolì? Amo il rientro a casa. Qua sto con la mia famiglia e con gli amici di vecchia data. Sono felice ma al momento non riesco ad immaginare il mio futuro lontano dall’Africa. Là c’è ancora troppo da fare ed hanno bisogno di me.
Cosa la affascina maggiormente di quel territorio? Il mare che ogni mattina alle 9 si ritira. Allora, io ed i bambini, ci rechiamo nella spiaggia per raccogliere conchiglie e stelle marine. Adoro vederli sorridere.
Come cerca di convincere i giovani a compiere questa esperienza? Penso che soltanto queste situazioni siano in grado di farci capire che la cosa principale che abbiamo è la nostra vita.