Quanto è vero che le apparenze ingannano: dietro alla faccia da schiaffi di un ragazzo che cattura per simpatia, Nicolò Barella nasconde un calciatore e un uomo eccezionali. In senso letterale, fuori dal comune. Appena ventunenne è forse il miglior centrocampista italiano, e non soltanto tra i coetanei; di sicuro è il più completo dal punto di vista tecnico e tattico, abbinando un moto perpetuo a due piedi da trequartista e a una lettura del gioco stupefacente anche per uno assai più stagionato e smaliziato. Con Federico Chiesa è il prodotto migliore del nostro vivaio, è il più giovane capitano nella storia del Cagliari, la squadra della sua città, è già sposato con Federica, più grande di sette anni, ed è padre di Rebecca, 18 mesi. Poiché, dunque, Nicolò Barella ha bruciato le tappe, con lui converrà partire dall’inizio.
«Sono del quartiere Pirri, papà è un rappresentante di elettrodomestici, mamma faceva la commessa in un negozio di scarpe. Ha smesso per seguire me, il lavoro più gravoso».
Perché, com’era da bambino? «Vivace, diciamo così. Non facevo cose eclatanti, però mi piaceva uscire, divertirmi, non tornare a casa… Per fortuna, mia sorella Martina, che ha quattro anni in meno, è sempre stata tranquilla. Oggi studia e fa danza classica».
A proposito di donne: una volta i club consigliavano ai propri giocatori di sposarsi presto per mettere la testa a posto. È questo il motivo per cui, appena ventunenne, è già marito? «Ho sempre avuto il desiderio di farmi una famiglia, forse perché ho tanti cugini. Federica era la donna giusta».
La coccola, dato che è più piccolo di età? (ride) «Non sono uno che si fa coccolare. Sono invece un bel rompipalle».
Su cosa? «Precisiamo: sono un buono, ma ho le mie sfuriate, come in campo. Ho sempre rimproverato mia madre per la sua mania dell’ordine, dopo il matrimonio sono diventato uguale a lei. Con Federica all’inizio ero gelosissimo, litigi su litigi; anche lei, per metà sarda e per metà veneta, a carattere non scherza».
Come ha conquistato sua moglie? «Non con la bellezza (ride), ma con la simpatia. Simpatia e personalità. Avevo 18 anni: tener testa a una donna di 25 e che per giunta era la mia prima fidanzata era dura. All’inizio è stato difficile, oggi non vedo la differenza di età. Mi sento un uomo di casa che, come tutti, scende a compromessi con la propria donna. Diciamo che il rapporto di forza tra noi due è 60 lei e 40 io. Però il mio 40 lo faccio rispettare!».
Il pallone a che età arriva?«A 3 anni e mezzo, alla scuola calcio “Gigi Riva”, giocavo con quelli più grandi ma solo per divertirmi. Uno o due anni dopo mamma mi portò a pallacanestro perché nella sua famiglia ci hanno giocato tutti, ma in palestra ero l’unico che calciava il pallone contro il muro. Così tornai alla “Gigi Riva”. Riva l’ho conosciuto a 17 anni. Disse solo: ti ho visto giocare, continua così. Trovai la forza di rispondere “grazie”».
Lui è ancora oggi uno dei simboli della Sardegna calcistica. Lei, che in questa terra è nato, si avvia a raccoglierne l’eredità. Cosa vuol dire nascere e crescere su un’isola? «Vuol dire sentirsi parte di un popolo. È una sensazione che avverto quando gioco: a spingermi non è solo il tifo, ma la passione di una comunità intera».
È un peso?«È un orgoglio. Più di altri gioisco delle vittorie e soffro nelle sconfitte. So che la gente vorrebbe sempre di più da me, ma deve sapere che, anche quando faccio male, ho dato tutto. Posso sbagliare un passaggio, mai l’atteggiamento».
Teme che una sua eventuale partenza possa essere considerata un tradimento? «Non ho paura di questo, perché se dovessi andar via non sarà mai per soldi, ma solo per ambizione».
I sardi vengono definiti diffidenti: vero o falso? «Lo siamo, ma solo all’inizio. È perché siamo abituati a stare per conto nostro, isolati».
Orgogliosi: vero o falso?«Verissimo. Io sono molto orgoglioso. Prima di ammettere di aver sbagliato devo comunque dire la mia. Cerco di intortarti in qualche modo; se proprio non ci riesco, solo allora ti do ragione. I tifosi mi rimproverano perché dicono che in campo sto sempre a borbottare e lamentarmi. Ma non lo faccio per capriccio, è che penso di essere nel giusto. Il problema è quando mi lamento con l’arbitro».
Silenziosi.«Io proprio no. Mi chiamano “radiolina”. Però nella vita privata siamo molto riservati».
Diretti.«Vero: non ci facciamo problemi a dire in faccia quello che pensiamo».
Il pregiudizio sui sardi che meno sopporta?«Potrebbe infastidirmi il fatto che ci chiamino pastori. Io invece ne sono orgoglioso perché credo che ci sia grande dignità nel mungere una vacca alle 6 del mattino per portare il latte alla gente».
A lei cosa infastidisce nel comportamento di una persona?«Falsità e superficialità. Sto lontano da quelli che, per interesse, si fingono amici».
Chi sono i suoi amici?«Quelli che conosco da quando sono nato. E i compagni di squadra: Sau, Ceppitelli, Dessena, Cossu. Hanno figli anche loro e i miei stessi valori».
Le danno consigli sulla paternità? «Ho sempre faticato ad accettare consigli, anche dai miei».
Parlava di valori: si dice che quelli del calcio siano fasulli e illusori. Per non perdere la rotta, quanto è servito diventare calciatore nel suo ambiente protetto?«Io sono sicuro che resterò quello che sono anche se dovessi andare a giocare altrove. A me non interessano la Ferrari o il super attico. Mi tolgo i miei sfizi, ma non gioco a calcio per farmi la macchina bella. Quando guadagnerò abbastanza da permettermi la Ferrari, probabilmente la comprerò. Ma non vivo per quella. Ambiente protetto? A cambiarmi in meglio sono stati i 6 mesi a Como, in B, due anni fa. Lasciai casa per la prima volta, in compagnia solo di Federica e di Alessandro Beltrami, il mio procuratore. Capii cosa stavo perdendo, dove avevo sbagliato, perché mi ritrovavo a lottare per la salvezza invece che per la promozione con la squadra della mia città».
Dove aveva sbagliato? «Negli atteggiamenti. Tutti dicevano che sarebbe stata la stagione della mia consacrazione e l’ho cominciata che non riuscivo a fare un passaggio, tanto – mi dicevo – avrei giocato comunque. E sono finito in prestito, perché qua tutti mi vogliono bene ma nessuno mi ha mai regalato niente».
E quali sono gli sfizi che si toglie? «Colleziono vini. E mi sono fatto una casa più grande: prima stavamo in una casa di 65 metri quadrati, adesso sono 150. Ma è stata una necessità. Lo sfizio vero sarebbe conoscere LeBron James, il mio idolo. Ho dato il suo nome al mio cane e di notte resto sveglio a guardare la Nba».
Rimpiange mai di essere diventato uomo troppo presto?«Mai. Ho quello che volevo, nel lavoro e nella vita. Le responsabilità fuori dal campo mi hanno aiutato a dare di più dentro».
Qual è il complimento più bello che le si possa fare? «Che sono un ragazzo umile e generoso».
Visto da dentro, cosa non le piace del calcio? «Le etichette. Se prendo molti “gialli” non vuol dire che sono cattivo. Accetto la critica se vengo ammonito per proteste, non per un fallo di gioco: io voglio vincere e non mi piace togliere la gamba. Non voglio che l’avversario passi. Molto spesso questo mi porta dei falli che potrei evitare, ma io punto sempre a prendere la palla, poi magari sbaglio il tempo dell’intervento. Comunque in questo inizio di campionato ho preso tre “gialli” nelle prime 3 giornate, poi stop. E mai per proteste».
Cos’è il calciatore Barella: mezzala, trequartista o regista? «Mezzala. Da trequartista sono libero di muovermi, ma sono meno utile nella riconquista del pallone. Al contrario, schierato davanti alla difesa faccio più filtro ma vedo meno la porta avversaria. Il ruolo di mezzala mi permette allo stesso tempo di difendere e inserirmi in attacco».
Ci sta il paragone con Nainggolan? «Ci sta per la comune interpretazione della partita: nessuno dei due molla niente. E ci sta nel modo in cui scivoliamo per recuperare palla. Ma lui ha più forza fisica».
È vero che tifa Inter? «No. Ho sempre tifato Cagliari, ma in casa mia sono tutti interisti e quindi da bambino ero contento quando l’Inter vinceva».
Il suo modello da bambino? «Del Piero era l’idolo, il modello Stankovic: per intensità e tiro. Mi riempiva gli occhi».
Nel suo ruolo chi è il migliore? «Modric, perché vede il gioco prima di tutti. Poi Nainggolan e Khedira».
Il campionato che le piace di più? «Quello inglese: lì di sicuro non tirano mai via la gamba» (ride).
Perché i nostri migliori giovani fanno tanta fatica contro i pari età europei? «Il problema è che sei o sette anni fa il livello della Serie A era più alto e quindi i giovani avevano migliori maestri. I ragazzi che arrivavano in prima squadra erano già pronti. Ma Francia e Germania si sono fermate, noi stiamo ricostruendo: tra uno o due anni saremo al loro livello».
Barella, c’è qualcuno cui dire grazie? «Tanti. Matteoli mi ha portato al Cagliari, Zola mi ha fatto esordire in prima squadra, Festa in campionato… La mia è una storia di sardi».