di LUCIA BECCHERE
Popolo di emigranti, gli italiani da secoli si sono sparsi in tutto il mondo ma soprattutto nelle Americhe e in Argentina dove con gli spagnoli, affini per religione, lingua e tradizione, costituiscono la maggioranza della popolazione.
I primi italiani approdarono in Argentina nella seconda metà del XVIII secolo ma la grande emigrazione si verificò tra il 1870 e il 1930. Tra il 1876 e il 1976 circa 3 milioni di Italiani – le punte massime si registrarono tra il 1905 e il 1914 – partirono verso quel paese vasto nove volte l’Italia che nel 1850 contava solo un milione e 100 mila abitanti, per sfuggire alla povertà, alla pressione demografica e alla forte tassazione. La seconda massiccia ondata migratoria avvenne negli anni Cinquanta e fu caratterizzata da una forte componente giovanile. A favorire la prima emigrazione nel Paese sudamericano fu l’articolo 25 della costituzione del 1853, « Il governo federale non potrà respingere, limitare o gravare con alcuna imposta l’ingresso nel territorio argentino degli stranieri che intendano coltivare la terra, migliorare le industrie, introdurre e insegnare le scienze e le arti» , e per incentivare ulteriormente il popolamento, nella seconda metà dell’800 il governo argentino assegnava alle famiglie, gratuitamente o a prezzi molto contenuti, fino a 25 ettari di terreno.
I primi emigrati, che provenivano dalle regioni del nord Italia, colonizzarono le zone semidesertiche della Pampa e della Patagonia. In seguito a spingersi nella lontana Argentina fu il mezzogiorno, Sardegna compresa, nonostante fosse una regione a bassa densità demografica. Tuttavia non tutti gli emigrati si sono affrancati dalla povertà e dalla fame, molti vissero in condizioni dure, accudendo bestiame alle dipendenze di qualche prinzipale-fazendero, altri si sono affermati nel piccolo commercio e pochi hanno creato vasti latifondi. La maggior parte ritornarono a casa più poveri di come erano partiti, altri ancora si smarrirono in quella terra sconfinata e di loro non si seppe più niente. Storie comuni a tanti che invano inseguivano sogni difficili da realizzare.
Nuoro non si era sottratta a questa ondata migratoria. Da Seuna e Santu Predu erano partiti numerosi in cerca di fortuna lasciando mogli e figli con la speranza e la promessa d’imminenti ricongiungimenti. Nel frattempo i bambini rimasti orfani venivano cresciuti da zii e nonni mentre le madri, da quel momento, osservavano uno status di vedove bianche che accomunava tante giovani donne in attesa del proprio uomo.
A Nuoro, gli uomini indossando il costume tradizionale si riunivano nei vari quartieri per congedarsi da parenti ed amici prima della partenza mentre le donne li salutavano nell’intimità e sull’uscio li accompagnavano con lo sguardo fino a vederli scomparire nel dedalo dei vicoli stretti per poi immergersi nel luttuoso silenzio delle loro case.
Giovanni Sanna di Salvatore e di Maria Cossu era nato a Nuoro il 3 aprile 1868 da una modesta famiglia di pastori che abitava in via Ortobene, attuale via Chironi. Nel 1893 aveva sposato Grazia Mereu, si era stabilito a corte ’e susu, uno dei quartieri antichi di Santu Predu, e dalla loro unione nacquero cinque figli: Salvatore (1894), Maria Grazia (1901), Rosa (1903), Francesco (1906) ed infine Maria nel 1908. Spinto dalla speranza di un futuro migliore, con tutte quelle bocche da sfamare, nel 1913 Giovanni pensò bene di emigrare in Argentina e con il suo caro amico Paolo si unì ai tanti in procinto di partire nella piazza di Santu Predu dove, cessata l’euforia dei saluti, erano calati l’amarezza del distacco e il mistero dell’ignoto. Aveva lasciato Nuoro a 43 anni quando la figlia più piccola ne aveva solo cinque. Per lunghi lustri non diede nessuna notizia di sé e non inviò mai un solo peso alla famiglia che viveva nella più assoluta povertà. La moglie Grazia, che in parte contava sull’aiuto del fratello e dei genitori, decise di lavorare presso famiglie abbienti per provvedere al sostentamento dei propri figli.
Dopo qualche anno in tanti fecero rientro in città trascinando un malandato baule in legno legato con ruvido spago, indice di povertà assoluta, che custodiva qualche misero indumento e niente più, accolti generosamente dalle famiglie che invano avevano sperato in un riscatto economico. Tutti parlavano di condizioni diversificate degli emigrati: di padroni e operai, latifondisti ed affittuari, proprietari terrieri e mezzadri. Anche Paolo, che con l’amico Giovanni aveva condiviso speranze e fatiche in quella terra lontana, aveva fatto ritorno in città. Raccontava di miseria e povertà, di lavoro estenuante, di scarsi guadagni e di giornate trascorse nei campi da zapatero. Narrava dell’amico che non avendo guadagnato nulla si vergognava di far rientro a Nuoro, consapevole di aver deluso la famiglia. Tuttavia a mezza voce faceva intendere che quello non fosse proprio il vero motivo ostativo al suo rientro ma che a trattenerlo in Argentina fosse una giovane donna di nome Juana da cui aveva avuto altri figli. Per la moglie Grazia fu un duro colpo. I figli erano cresciuti portandosi dentro un profondo senso di abbandono. Salvatore si era sistemato a Torino dove si erano trasferite anche Rosa e Maria per lavorare in fabbrica mentre Maria Grazia e Francesco si erano sposati e vivevano a Santu Predu. Erano trascorsi circa vent’anni da quel lontano 1913 quando dall’Argentina fece ritorno un altro nuorese latore di un messaggio da parte di Giovanni il quale, ormai vecchio e solo in seguito alla morte di Juana, chiedeva di potersi ricongiungere alla donna che aveva lasciato e, ignaro che i suoi fossero venuti a conoscenza dell’esistenza della sua nuova famiglia, pensava di recuperare gli affetti.
Immediato lo scatto di orgoglio da parte di moglie e figli a cui seguì un netto rifiuto con la seguente risposta: «Ube as colau sa die, colas binzas sa notte» (Dove hai trascorso il giorno, trascorri pure la notte ndA). Da quel momento su di lui calò il silenzio più assoluto. I figli non ne vollero più sentire parlare e così Giovanni non seppe mai che il suo primogenito Salvatore militante fascista, venne fucilato nel ’43 dai partigiani a Torino, che alla piccola Maria la meningite aveva leso i timpani e necrotizzato la lingua a soli 6 anni, avrebbe ignorato anche l’esistenza di tanti nipoti che l’avevano reso nonno e della bellissima nipote Diddina che aveva sposato un nobile torinese.
Del suo passare è rimasta una sola foto che lo ritrae col costume tradizionale poco prima della partenza. Lo sguardo fiero proteso a scrutare l’ignoto sembra adombrare il presagio di un oscuro distacco.
per gentile concessione de https://www.ortobene.net/