STILISTA, POETA, PITTORE E REGISTA TEATRALE: ANTONIO MARRAS APRE LA SUA CASA AD ALGHERO PER L’INTERVISTA CON IL CORRIERE DELLA SERA

di ELVIRA SERRA

Una salita ripida costeggiata dagli ulivi.Un boschetto di macchia mediterranea. Lo studio con le pareti a vetro dove le sarte stanno lavorando alla sfilata di settembre. Una piccola piscina. Il grande cortile che sembra fatto per gli elicotteri (in realtà lo strato isolante che lo ricopre serve a non far filtrare la pioggia al piano di sotto, dove c’è la portentosa parete di Maria Lai). Di fronte, la magnificenza del mare sardo, con Capo Caccia sulla destra. La casa gli somiglia, parla di lui, della sua poesia: le scrivanie piene di idee in divenire, le onnipresenti ciotole di caffè raffermo che userà per intingere matite e tracciare linee sui fogli nelle due ore dell’intervista. Ci accomodiamo nel salotto dominato dalla foresta di orchidee. Antonio Marras siede all’angolo del divano. Patrizia, moglie e musa, diventa invisibile, ma c’è. Se a salvare il mondo sarà la bellezza, questo è il rifugio perfetto dove ripararsi.

Antonio, qual è la sua qualifica?  «Nella carta di identità c’è ancora scritto commerciante. Arrivo dal negozio (di abbigliamento del padre Efisio, ndr). Non trovo un termine solo. Sono uno, nessuno, centomila».

Prendiamola alla larga. Lei è sarto, stilista, costumista, artista, poeta, designer, scenografo, regista teatrale. Cosa l’ha emozionata di più? «Ah, è come La scelta di Sophie… Sono ognuna un tassello di un grande puzzle. Le ho talmente sentite, sofferte, conquistate tenacemente contro tutto e tutti che non potrei mai sceglierne una».

Allora mi parli dell’ultima esplorazione: quella di regista teatrale. Sarà a Cagliari a novembre. «L’anno scorso ho fatto una mostra a Brescia nella galleria di Massimo Minini. Un sera gli dico: “Ho un progetto che mi piacerebbe realizzare”. Gli parlo di Mio cuore tu stai soffrendo. E lui subito: “Cosa posso fare per te?”. È una rivisitazione della canzone di Rita Pavone, una di quelle cose che era lì nel cassetto, un semplice sogno. La sera della inaugurazione mi maledicevo: non bastava la mostra? Le prove erano state un disastro, invece poi è andato tutto magnificamente».

Performa anche lei? (Ride). «No, io non performo, sono il regista. Gli attori raccontano cose mie strettamente personali, inventate, riviste, frammenti di un passato remoto. Esplode alla fine con la canzone di Rita Pavone e i ballerini in scena con dieci cuori veri».

Cuori veri? «Di animali! Me li ha procurati il mio gallerista dal suo macellaio: sono stati scottati per essere usati nella scena finale».

Mi fa sentire la canzone? (Smette di disegnare e comincia a tamburellare sui fogli). «Tu… tu-tù… tu-tu-tu-tu…». (Poi canta, ha gli occhi felici).

Uno spettacolo autobiografico. Perché il suo cuore sta soffrendo? «Dopo l’esibizione sono stato male per un mese. È stato talmente eruttante: ho sputato fuori quello che avevo dentro da tempo».

Dal teatro al cinema. Quale film vorrebbe dirigere? «Ho letto da poco Un amore di Dino Buzzati. Pagina dopo pagina immaginavo chi potesse essere il protagonista di questa tormentata storia d’amore, uno spaccato di Milano, personaggi datati, ma attuali».

E a chi darebbe il ruolo? «Ci vuole un Toni Servillo della situazione, con esperienza teatrale. Magro, quasi anonimo. Forse Valerio Mastandrea».

Il momento più felice della sua vita?  «L’anelata felicità non so quante volte l’ho sfiorata. Ma non riesco a godere di quello che faccio. Quando finisce, per gli altri è tutto bello; io noto solo cosa non è andato bene. Penso subito a quello che devo fare dopo».

Se le chiedono di dove è? «Sono di Alghero, sardo marino di scoglio, nato su un porto, abituato a respirare il Maestrale. Il mio rapporto con il vento è forte, mi dà energia».

E poi? «Sardo, italiano, cittadino del mondo. Essendo nato qua ho istintivamente il gesto dell’accoglienza verso chi viene da fuori, siamo predisposti allo scambio, curiosi. Vede questa collina di fronte? Limita l’orizzonte e ti costringe a guardare oltre».

Ha parlato di accoglienza. Come vive l’atteggiamento del governo verso i migranti? «Nell’ultima sfilata ho raccontato dei migranti, sulle note di Titanic di De Gregori. Purtroppo abbiamo la memoria sempre più corta. Fino a una manciata di decenni fa eravamo bloccati a Ellis Island. Adesso siamo assuefatti, indifferenti: cento morti ci sembrano pochi».

La rete si è indignata più per il cane gettato dal padrone nel mare con un sasso al collo che per la mamma e il bambino morti a 80 miglia dalla costa libica.  «Vado oltre. Pensi ai 12 ragazzini nella grotta in Thailandia. Hanno monopolizzato i notiziari a discapito dei disgraziati in mare. Tutto questo ci scivola addosso, sembra che non ci riguardi».

Restando in tema di accoglienza, che sentimenti ha verso il G8? Lei era stato scelto come Gran Cerimoniere. Poi Berlusconi spostò tutto in Abruzzo. «Mi dispiace molto. L’unica cosa per cui mi ero battuto è che quanto avremmo utilizzato dovesse provenire dalla Sardegna: tappeti, pietre, tutto. Il terremoto, una cosa terribile, ha salvato Berlusconi: nulla sarebbe stato pronto nei tempi sperati».

Berlusconi l’ha chiamata?  «No, ho parlato sempre con Bertolaso, mai con lui. È un genio del male, meraviglioso, eh. È risultato un benefattore dell’umanità, fatto sta che all’Aquila sono ancora in quelle condizioni».

Ha detto che non sarebbe stato pronto nulla, in Sardegna.  «Quello che riguardava noi era stato fatto. Io avevo il compito di sistemare e arredare l’hotel a La Maddalena, allestire la suite di Obama, preparare l’orto per Michelle a bordo piscina».

Curiosità? «C’è una cosa… Però non la scriva…».

Sentiamo. «Dovevo disegnare le divise per gli steward e avevo fatto i pantaloni un po’ corti, per dare un’aria twist. Pare che Berlusconi abbia chiesto di allungarli, gli sembrava un difetto…».

Parliamo di sentimenti. Cos’è Patrizia per lei?  «Intanto è la persona che mi sopporta da più di trent’anni. È generosa, intelligente. Grazie a lei ho fatto tutto quello che ho fatto, da solo non avrei fatto niente. È la madre dei miei figli. Ancora oggi sa quando è il momento di lasciarmi decantare senza intromissioni. Mi capisce dal movimento delle sopracciglia».

Efisio per lei? «È il primo figlio. Un rapporto terribile. Ha sempre avuto un complesso di Edipo sviluppatissimo: amore folle per la madre e per me odio palese. I miei amici dicevano: “Non farne una cosa personale, alle elementari cambierà”. Ma non cambiava mai, era una guerra su tutto: se era giorno, doveva essere sera; se era bianco, nero; restiamo?, no partiamo».

Quando è cambiato? «Quando è andato a Parigi a studiare fotografia alla Parsons. I primi giorni ero preoccupatissimo, lo chiamavo spesso: lui mi rispondeva che lo aveva appena chiamato la mamma, di chiedere a lei. Finché un giorno lo sento giù: “Che succede?”. “Un prof ci ha chiesto una tesina sul concetto di esplosione”. Ed io: “Bellissimo! Avrai visto Zabriskie Point, di Michelangelo Antonioni”. Lui: “E chi è?”. Lì mi sono arrabbiato: “Ma come? Ti avevo regalato i dvd, ignorante! Guarda la scena finale”».

E poi? «Il giorno dopo mi chiama: “Ho fatto una figura meravigliosa! Antonioni è il regista preferito del mio professore!”. Lo ricordo con felicità, si era aperta una breccia nel muro».

Leonardo? «Ha un carattere completamente diverso dal fratello. Quanto Efisio era introverso, silenzioso, il secondo è sempre stato super estroverso, gioioso. Casa nostra era il paradiso dei bambini, scalzi, selvaggi. Un giorno Leo torna da una passeggiata in campagna e mi porta una palla da tennis consumata dalle intemperie: “Penso che questa cosa ti piaccia, perché mi sembra un’opera d’arte”. L’ho esposta in Triennale a Milano, alla mostra Nulla dies sine linea».

Quando sono nati i suoi figli? «Ah, domanda cattivissima! Non mi ricordo nessuna data, ma di Leo sì, il 29 settembre di non so quale anno, come la canzone di Battisti. Patrizia il 21 ottobre: lo so perché io sono nato il 21 gennaio».

Le donne alle quali si ispira nelle sfilate sono forti, carismatiche, senza età: Eleonora d’Arborea, Amelie Posse, Blandita Suárez.  «Vivo con una donna potente, impegnativa. Sono attratto dalle donne di carattere. Non mi incuriosisce la bellezza fine a se stessa. Amo le donne che procedono senza compromessi, mai passive».

Vuole vendere una quota del marchio al fondo Alis?  «C’è stata una trattativa lunga e adesso interrotta. Sento il bisogno di essere concentrato sul lavoro creativo e meno disturbato da incombenze di imprenditore. Non mi dispiacerebbe che qualcun altro si occupasse di questa parte».

Cosa ha preso da suo padre Efisio? «Una parte del carattere, quella di impartire direttive. Non sono attento a gratificare le persone, ma non chiedo gratifiche nemmeno per me».

E da sua madre? «Lei era intelligente, sagace, critica, ma mai offensiva, premurosa allo stesso modo con cinque figli. Ne ho un ricordo così vivo perché sono due anni che è scomparsa e credo che il risultato di quel Mio cuore tu stai soffrendo sia legato a lei: mi sono trovato a svuotare quanto accumulato negli anni della sua malattia».

Come si chiamava? «Nannina. Da lei ho preso l’essere attento agli altri. Da poco mi hanno detto: “Tu sei troppo gentile”. Ma cosa vuol dire?».

Rinunce che le pesano? «Mi sarebbe piaciuto frequentare l’università».

Ha la laurea honoris causa in Arti visive all’Accademia di Brera. (Ride.) «Certo. Io avrei frequentato architettura, mi affascinano le case, gli ambienti. Con il mio lavoro sono riuscito comunque a realizzare cose inaspettate. Penso alla collaborazione con Luca Ronconi, al rapporto speciale con Maria Lai e Carol Rama. Mi manca il tempo. Assieme allo spazio, è uno dei lussi più grandi».

Le piacerebbe un museo? «Mi avevano fatto una proposta qui ad Alghero, con una mia mostra permanente e altre a rotazione. Non se ne è più fatto niente».

Nel frattempo Patrizia ha preparato la tavola all’aperto. Mi mostra il cortometraggio del suo racconto Per grazia ricevuta, ambientato tra la terra e il mare. Ogni tanto fa capolino Petronilla, figlia del jack russell Pierivo, la star delle sfilate. Quarantatré viene a prendersi le coccole. Del beagle Baguette neanche l’ombra.

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