di SERGIO PORTAS
Quando mio zio Silvio, per le feste “grandi” di Guspini si vestiva col saio bianco e si recava, prima di noi tutti, in chiesa per la processione di rito, mi faceva sempre una grande impressione ma, erano i primi anni ’50, pensavo che le confraternite avessero seguito un po’ tutte il declino che i tempi moderni hanno decretato per le vocazioni, i conventi, i seminari della chiesa cattolica. Finché in questa assolata domenica di 17 giugno non ho assistito, nella cornice formata dal Duomo in smagliante marmo rosa e dalla sua piazza, alla sfilata che, dopo la messa, le oltre 200 confraternite qui pervenute per la loro XXV congregazione, hanno eseguito per una folla di stupefatti turisti, che non sapevano più quante foto scattare nel tentativo di cogliere la varietà , anche cromatica perché no, degli abiti, dei gonfaloni, delle croci dai rami sfarfaglianti, dei crocefissi neri e bianchi, pesanti più di cento chili, che i confratelli venuti da ogni parte d’Italia hanno sfoggiato per la gloria dei loro santi patroni. Dalla Sardegna sono venuti anche quelli di Monti,di Santu Ainzu martire, Sant’Uingiu nel Medio Campidano guspinese, San Gavino per i continentali tutti. L’abito é un camice immacolato con bordature dorate nelle maniche e nella parte inferiore, sulle spalle una mantella rosso fuoco con l’icona del Santo nella parte anteriore destra, un cingolo rosso-dorato regge un medaglione sempre con l’effige del santo, in bronzo pei confratelli, in argento per il priore. Giuseppe Mattioli, scrittore e giornalista (per la “Nuova” di Sassari più di 42 anni) ha scritto un libro sulla storia della confraternita di Monti, di cui anche egli fa parte ( e anche un libro sulla storia di Monti), ambedue li scambia con una targa-memoria al circolo culturale sardo di Milano, il sabato precedente la sfilata in Duomo, nella mattinata tutti i confratelli avevano cantato in coro in Sant’Alessandro. Perché il “ Santu Ainzu” è anche e sopratutto un coro tipico sardo, tutti uomini di età non più giovanissima, ma non solo, mi dirà poi Domenico Pes, una della voci soliste, che ci sono già 8 giovani quasi pronti per diventare di prima fascia e altri tre di seconda, grazie a una politica di recupero delle tradizioni rivolta sopratutto al mantenimento della lingua sarda. Mattioli legge cinque righe in “sardo stretto di Gallura” per partecipare ai presenti, numerosissimi, non ci si sta tutti neppure nella sala grande della “croce verde”, i vicini del circolo milanese, tutta la sua emozione nell’incontro coi fratelli-separati dal mare, porge le scuse del Maestro Carlo De Riu ( di Ozieri ma sposato a Monti) che non ha potuto essere presente oggi, grandi direttori questi della famiglia De Riu, sono in quattro fratelli e dirigono quattro cori diversi. Racconta delle messe, dei riti, che il coro di confraternita svolge in paese, per Pasqua sfoggiano i guanti bianchi, ma anche quando a Lourdes hanno cantato davanti a 25.000 persone, e per i due ultimi papi viventi: Ratzinger e Francesco. Domani in Duomo dovranno amalgamarsi con le altre 3500 voci, la messa cantata all’interno della chiesa più grande d’Italia ( la quarta nel mondo per superficie) sarà un evento epocale di devozione. Ma oggi è qui per “sponsorizzare” il suo paese, il 1° al mondo, lo dice lui, a inventarsi una bottiglia piena di Vermentino ( e lo scriviamo apposta con la maiuscola), pare che ci siano tracce di ciò nel 1889. Una cooperativa votatasi alla produzione di un vino unico, sapido di Limbara e di mare, che nel ’56 quando nacque contava 22 soci, e oggi sono in 350 per 700 ettari di vigna. A sfatare una di quelle leggende metropolitane che vedono i sardi incapaci di mettersi insieme a fare impresa. Vittime predestinate da non si sa bene quale DNA che li farebbe nascere invidiosi della buona sorte che può sorridere a propri vicini, toccherà cercare di salvare la pelle nelle trincee del Carso per capire che mettersi “tottus in pari” è strategia più utile allo scopo che perseverare in un egoismo improduttivo. Ma non venite a Monti solo per il vino, dice Giuseppe, a Monti, due passi da Olbia, ci sono ben 11 chiese, e dodici nuraghi leggo in Wikipedia, tre di queste sono all’interno del paese, le altre sparse per il contado. Ognuna naturalmente ha la sua festa votiva dove, dico io, i sardi danno il meglio nell’apparecchiare banchetti indimenticabili per varietà di cibo e bevande, canti in limba, balli accompagnati dal suono delle launeddas. Non è molto che a Monti si sono accorti di possedere un oggetto d’arte sacra di incomparabile valore, un calice d’argento datato dalla fine del XII e la prima metà del XIII secolo, lo tenevano, seppure in cassaforte, mischiato ad altri oggetti liturgici, ce ne sono solo altri due al mondo con quelle caratteristiche che lo fanno datare a quell’epoca, il diametro della coppa coincide con quello del piede, dove è inciso il nome del presbitero che lo ha fatto fare: Gitimel, anche se l’epigrafe è incisa in un latino non proprio perfetto. Ora è in una teca in cristallo protetta da un sistema d’allarme, nella chiesa parrocchiale presso la cappella della Madonna. Ma adesso tocca al coro: in “borghese”, camicia bianca a collo aperto, corpetto nero come i calzoni e le scarpe, solo Gabriele Barria , voce tenore solista, terzo anno al conservatorio di Cagliari, che dirige al posto del Maestro assente, sfoggia una camicia “ a zughittu” con bottoni dorati. Ed è “Nanneddu meu” a fare da apripista a un vero e proprio concerto, in un ambiente non proprio ottimale per acustica e dimensioni. Ma tant’è, come i sardi sanno da sempre: “…su mundu est gai/ a sicut erat non torrat mai/ Semus in tempus de tirannias/ infamidades e carestias/…”. ( pare stia parlando di come il mondo tratta i cosiddetti “migranti”). Gabriele, lasciatevelo dire da uno che ha cantato per dieci anni in coro sardo (Sa oghe de su coro, n.d.r.) ha una voce tenore cristallina, il coro che lo sostiene, sono più di venti voci in circolo, è altrettanto impressionante. Nella canzone che segue è Leonardo Pes a fare da solista, per “S’aneddu”il coro mette al suo centro due di Monti che hanno lavorato a Milano per una vita e ora se ne sono tornati in paese: Pierina Chessa e Antonio Pala, me li ricordo da sempre in costume sardo quando a Sant’Ambrogio, nell’omonima basilica, offrono un cesto di prodotti isolani all’arcivescovo milanese in carica, un sodalizio matrimoniale il loro che conta 52 primavere, oggi Antonio si occupa delle sue viti di vermentino, davanti casa (quest’anno l’erba infestante ha raggiunto, complice le piogge abbondanti, dimensione di giungla brasiliana), Pierina è come sempre impegnata in attività culturali che hanno al centro la soggettività femminile, la sua cantina poi è ricca di sott’ oli d’ogni tipo, di marmellate da favola. E’ sopratutto grazie a loro che il coro della confraternita è qui stasera al circolo dei sardi milanesi. Come dice il testo di chiusura della canzone: “…ne chin sa dommo ‘e oro/ e sos disizzos de onzi cosa/ ma pacu e chin decoru/ chin sa salude e s’aneddu ‘e is sposa…”. Gianpaolo Langiu è voce -solista per “Sa crapola”: “…curre curre sa crapola/ birramboi/birramboi/…”. Mentre Gabriele Barria si riprende il palcoscenico per “Su ninneddu”: “…chi non porta manteddu in die de vrittu/ dormi vida e coro riposa e ninnia/…”. A questo punto tocca al sindaco di Monti Emanuele Antonio Mutzu (eletto per la seconda volta) rilevare come il sardo si porti con sé le proprie radici soprattutto quando gli tocca emigrare, e come rimanga attaccato ai valori di accoglienza presenti fortemente anche nei sardi milanesi, lui offre, in cambio, i canti della sua confraternita. Stamani, dice scherzando ma non troppo, siamo andati a visitare la Scala…siamo un po’ ambiziosi. Per la “Ninna nanna sarda” la voce solista è di Leo Pes. “Dimonios”, oramai celeberrimo inno della Brigata Tattaresa, scalda le mani del pubblico plaudente. “Pro Monte” è un inno che la poetessa Gavina Careddu ( mamma del sindaco) ha scritto per tutto l’amore che il suo paese le ha profuso, paese che “ama sa musica i su cantu”. Poi è “No potho reposare” che il coro usa cantare all’uscita dalla chiesa degli sposi nel giorno del matrimonio: “ Blocchiamo il traffico ( il sindaco lo saprà?), mettiamo in mezzo alla via principale un tavolo con vini e spumanti e offriamo da bere a chiunque passi di lì, certo a Milano sarebbe più difficile…”. Domenico Pes è la voce solista per “Su olu ‘e s’astore”, con lui vola tutto il coro come fosse un angelo. E per chiudere col botto, la “Maria Reina” portata al successo dal duo Puggioni, ci vogliono due voci soliste, un Pes ( Leonardo e Domenico sono fratelli)e un Barria. E stavolta quando tocca al coro tutto “entrare”, tremano anche i muri della stanza. Seguirà una festa di quelle che raramente mi è stata data di vedere qui al circolo sardo, complice il “cadeau”, il regalo da cui questi montini si sono fatti precedere, “Mezzo bancalino di vini”, dice Giovanni Cervo, presidente del circolo, che tradotto sarebbero 17 cartoni da sei bottiglie, più uno da dodici, fate voi il conto. C’era a contorno una fregola sontuosa (Rosa Muggianu deve averne imparato i segreti ad Atzara), formaggi vari, salsiccia, amaretti e gueffos, a fiumi i vini della cantina di Monti: Funtanaliras e Aghloia innanzitutto, vermentini di tasso alcolico non indifferente (sopratutto il secondo), profumi di mela cotogna, fiori d’acacia e mandorle amare. E S’Eleme e Balari ( rifermentazione in autoclave con metodo charmat). Ma anche i rossi cannonau Tamara e Abbaia (cannonau con pascale, malaga e monica). A un certo punto parte del coro si è riposizionato in cerchio e ha intonato una “Murinedda”. Il vostro cronista ha dovuto tutto assaggiare, ad onore della professione che glielo impone come statuto, e forse ne sarebbe uscito solo parzialmente ebbro, la goccia che lo ha fatto entrare nell’ubriacatura profonda è stato il distillato di vermentino che a tutti offriva Pierina Chessa, lo fa il suo Antonio: il giallo paglierino che gli dà colore e ne smorza l’asprezza dell’acquavite pura è finocchietto selvatico.