DEGEN(D)ERATION – THE GHOST OF THE TRIBADE: IL RITORNO SUL PALCO A NEW YORK PER FRANCESCA FALCHI

Francesca Falchi (foto di Luisa Uneddu)

di VALERIA DI GIULIANO

Francesca Falchi è tornata ad esibirsi a New York, al Festival InScena!, con il suo nuovo lavoro su lesbiche e Fascismo, seconda tappa del progetto sulle donne e i totalitarismi. L’abbiamo intervistata per saperne di più. Degen(d)eration – il fantasma della tribade (produzione L’Eccezione), scritto, diretto e interpretato da Francesca Falchi, è il secondo atto di un progetto il cui primo atto Der Puff è stato ospite al Festival InScena! nel 2017. Continuando lo studio sulla condizione femminile in epoche e contesti differenti, Francesca Falchi traccia un ritratto della condizione delle lesbiche in epoca fascista, ironizzando sul binomio moglie-madre, tanto caro alla propaganda, binomio che non lasciava spazio a nessuna alternativa. In questo lavoro il video, il suono (musiche e video Brigata Stirner, Arnaldo Pontis e Roberto Belli), le coreografie (Donatella Martina Cabras) e i costumi (Alessia Marrocu) diventano parte essenziale della drammaturgia stessa. A partire dal Manifesto della Donna Futurista di Valentine de Saint-Point, il testo ricostruisce la progressiva riduzione degli spazi di autonomia (compresa quella sessuale) della donna durante l’epoca fascista, attingendo a documenti storici come i discorsi di Mussolini e della Chiesa inneggianti al binomio moglie e madre, passando attraverso la metafora di Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll.

Ci racconti la genesi di questo progetto? Il progetto su lesbiche e totalitarismi nasce alla fine del 2010. Nel 2011 Der puff, su lesbiche e nazismo, debutta al festival Garofano verde e, nello stesso anno, Degen(d)eration, su lesbiche e fascismo, arriva in finale al premio di drammaturgia Avamposti d’Autore come corto teatrale. La terza tappa, su lesbiche e franchismo, è in cantiere.

Quali sono i punti di forza dello spettacolo? Perché è da vedere? La drammaturgia innanzitutto. Ho lavorato su due piani: il primo è quello storico, dove si intrecciano i fatti dell’epoca e le testimonianze delle lesbiche sulle loro esperienze durante il regime; il secondo è quello surreale, dove ho riscritto alcune parti di Alice in wonderland in chiave transgender e le ho inserite per enfatizzare il lato grottesco della situazione nella quale vivevano le lesbiche in Italia durante il ventennio. E poi il lavoro sonoro e visivo a cura di Arnaldo Pontis e Roberto Belli (Brigata Stirner): la scenografia è costituita da una serie di proiezioni ed immagini che raccontano le vicende storiche del ventennio ma anche l’immaginario lesbico dell’epoca e la musica è un rifacimento in chiave contemporanea delle canzoni di quel periodo. È indubbiamente uno spettacolo molto particolare ed originale proprio per questa commistione che posso dire molto ben riuscita: e devo ringraziare Alessia Marrocu e i  suoi costumi che rendono bene il gioco tra realtà e surrealtà.

Cosa significa per te tornare in scena a New York? Sono molto contenta. Anche perché portare uno spettacolo come questo negli Stati Uniti è, come l’altra volta, non solo un atto culturale ma politico.

Quali materiali hai usato e quali ricerche hai svolto per scrivere il testo? Per questo spettacolo ho utilizzato principalmente Fuori dalla norma. Storie lesbiche nell’Italia della prima metà del Novecento, a cura di Nerina Milletti e Luisa Passerini e il saggio di Paola Guazzo Al “confino” della norma. R/esistenze lesbiche e fascismo e Le donne nel regime fascista di Victoria De Grazia. Ma troviamo anche parti di Alice nel paese delle meraviglie, delle Apocalissi gnostiche e del Manifesto futurista femminiledi Valentine de Saint-Point.

Chi sono le donne che racconti nello spettacolo? Donne fuori dalla norma, costrette ad essere normali perché essere diverse non era un valore aggiunto ma una condanna al confino o in galera.

Raccontaci la tua esperienza nell’aver partecipato. Com’è andata a New York e al tuo rientro in Italia? Bella, entusiasmante ed appagante. Ed infatti mi sono proposta per poter tornare un’altra volta. Il rientro? Nemo propheta in patria. E, sinceramente, va bene così.

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