TRADUZIONE DELLA DIDASCALIA DELL'IMMAGINE SCRITTA AD ORGOSOLO: I DIRITTI DEI POPOLI NON SI OTTENGONO CON LE BARBARIE

murales di Orgosolo

murales di Orgosolo


di Michela Murgia

Orgosolo è il cuore duro della Sardegna, lontano da tutto, vicino solo a sé stesso. Questo è lo stereotipo, anche tra molti sardi, per definire un luogo avvertito solo in parte come elemento di un suolo comune. Visti da fuori i sardi sono tutti sardi. Visti da dentro, neppure noi ci vediamo uguali. Tutto il Campidano e i territori collegati hanno una parola sola per definire l’altra Sardegna: “il capo di sopra”. I sardi del capo di sopra, “is cabasusesus”, sono visceralmente percepiti come altra cosa da sé, come un popolo che segue usanze proprie, dalla lingua chiusa e dura, dal vestiario non omologato, troppo spesso associato alla legge brutalmente autoreferenziale che Antonio Pigliaru palesò per iscritto come “codice della vendetta barbaricina”. La balentìa, il criterio che in Barbagia è la cifra massima dell’uomo di valore, saldo nella parola e nell’animo, in tutto il resto della Sardegna ha invece una connotazione pesantemente negativa, associata erroneamente alla prepotenza e all’arroganza. Fortunatamente non tutti hanno per l’interno questa diffidenza timorosa, più nutrita che fondata. A me per esempio questo mondo ha sempre incusso un rispetto senza nome, un desiderio di conoscenza che velava un altro desiderio, quello che non si poteva dire e forse non si può dire nemmeno oggi. Orgosolo, paradigma di tutta la Barbagia, ha su di me un fascino irresistibile. Ogni pietra, ogni volto, ogni secca parola dialettale sembra lì per dirmi sua e non è un caso se ogni volta che torno in Sardegna la prima tappa dopo casa è lì. Un giorno scoprirò quale filo misterioso mi lega a quest’isola nell’isola, ma fino a quel momento mi accontento di ammirarla, come la foto di un uomo amato che non sa che esisti. Non ancora. Dei suoi murales mi piace la concezione che traspare, forse la prima cosa che smentisce la fama di chiusura dei barbaricini. Sui muri di Orgosolo scorre la storia, tutta la storia, non solo la sua. Accanto alle rivendicazioni politiche e sociali sarde spuntano dagli intonaci le torri gemelle in fiamme, i volti di una Gaza fucilata nei suoi padri abbracciati ai figli, il lamento degli indiani d’America senza più terra né identità, la missione militare in Etiopia, tangentopoli dimenticata ovunque tranne qui, le troppe basi militari, Carlo Giuliani, il cielo che non piove più e la lotta contro un parco inumano, insieme combattuta e insieme vinta. Le frasi di Emilio Lussu si mischiano a quelle di Helder Camara, ai versi di Brecht e di Turoldo, ai pensieri di Gramsci e di Gershwin. In nessun altro posto la Sardegna emana dalle case stesse una così alta consapevolezza di essere scheggia di un mondo enorme, la cui eco giunta fino a qui riverbera tra i muri fino a diventarne parte. Non accetto che mi si dica: i disegni non li fanno gli orgolesi. E’ vero solo in parte, conosco io stessa orgolesi che ne dipingono. Ma soprattutto è vero che metterci il muro implica accettare il contenuto del messaggio che vi comparirà, quasi sempre pesantemente politico, per nulla neutro. Sfido chiunque a provare a convincere un campidanese a farsi fare la stessa cosa su un muro della sua casa: non gli riuscirà. Quello orgolese è un concorso di colpa, se non artistica quantomeno concettuale. Metterci il muro e metterci il cuore non è così diverso, se il muro è quello del posto dove vivi, generi, fai l’amore, lavori e muori. Dentro ci sono i disegni dell’asilo dei tuoi figli, fuori i fatti del mondo dove i tuoi figli cresceranno. Per questo anche come comunità Orgosolo ha fatto una scelta ospitando i murales, perché un dipinto su un muro non è solo del padrone del muro; è visibile a chiunque, può offendere o consolare, far pensare o far storcere il naso, al di là dell’indiscutibile valore artistico. Eppure non c’è neanche un murale sfregiato, nemmeno i più espliciti o politicamente schierati. Dietro l’esistenza di ognuno di quei dipinti c’è l’assenso implicito di una intera comunità che rivela, accanto a una mente locale, un silenzioso cuore globale.   

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Un commento

  1. Di Stefano Silvana

    Non sono sarda, di Michela ho letto quasi tutto, la sua morte mi profondamente addolorata,abbiamo perso la scrittrice, ma sopratutto, una mente e un cuore, una voce forte sempre fuori dal coro che ti faceva riflettere

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