dall’Associazione Grazia Deledda di Pisa
la relazione di Remo Bodei
la lettera di Ignazia Satta
L’incontro culturale del 31 gennaio 2018 ha aperto un anno importante per l’Associazione Sarda Deledda di Pisa: è il suo ventesimo anniversario. E, con lei, il quarantesimo del capolavoro sattiano “Il giorno del giudizio”. Allora, quale occasione migliore se non dare un segno culturale? E, quale luogo migliore se non la Gipsoteca di Arte Antica dell’Università di Pisa? Così, grazie alla partecipazione di importanti relatori, come prof. Remo Bodei, socio onorario e filosofo di fama internazionale, il giornalista Tonino Oppes, l’artista Giuseppe Carta, con al loro fianco il presidente Giovanni Deias, i lettori Giancarlo Cherchi e Anna Serena Mustaro, un centinaio di persone hanno partecipato alla presentazione del libro “Nel segno del giudizio. L’arte nelle copertine di Salvatore Satta” di Manola Bacchis, sociologa e docente a contratto nell’Ateneo pisano. Il tutto organizzato con l’aiuto di numerose persone, e il supporto di Fasi, Regione Sardegna, Condaghes, Caffè Tettamanzi di Nuoro, e il patrocinio gratuito del Dipartimento di Scienze Politiche di Pisa. Testimonianze uniche: Ignazia Satta, nipote di Salvatore, e Filippo Satta, il figlio.
Serata proseguita l’indomani a scuola, presso l’istituto superiore “A. Pesenti” di Cascina, con studenti e docenti Proff. Andrea Cano e Cristina Battistin, per parlare e soprattutto aprire la finestra sulle copertine, sul mistero delle immagini, e sul grande giurista scrittore Salvatore Satta. Ma adesso la parola alla relazione integrale del prof. Remo Bodei, proprio dedicata al saggio di Manola Bacchis. E la lettera integrale della nipote Ignazia Satta.
Un invito alla lettura, alla riflessione e all’importanza del non ovvio e delle immagini, di copertina, come quelle che ritroverete descritte nel saggio della Bacchis.
Presentazione del libro Manola Bacchis, Nel segno del giudizio. L’arte nelle copertine di Salvatore Satta, Condaghes (2017).
Potrebbe sembrare bizzarro scrivere un libro sulle copertine di un altro libro, il grande romanzo di Salvatore Satta, Il giorno del giudizio, pubblicato postumo a Padova, presso la Cedam, nel 1977 e che circola in Italia dal 1979 soprattutto nell’edizione Adelphi. Il libro ha avuto un grande e meritato successo a livello mondiale ed è stato più volte ristampato da noi e tradotto in molte lingue.
Manola Bacchis analizza 41 copertine, che coprono un quarantennio e vanno dal 1977 al 2016, quali dispositivi segnici (figure e parole) atti a far scattare la fantasia del possibile lettore perché ne immagini il contenuto. Una immaginazione che, virtualmente, non ha limiti, perché su un’immagine c’è infinitamente da dire. Non è ineffabile perché non si può dire, esprimere, ma perché c’è infinitamente da dire (è come il Pi greco, ?). Oltre al carattere commerciale, seduttivo, che dovrebbe essere funzionale all’acquisto. Eppure, esse comunicano, ci dicono qualcosa che dobbiamo decifrare, usando la copertina per andare oltre di esse, scoprendo un significato nascosto oltre quello apparente. Non si vede, come troppo spesso, semplificando, siamo portati a credere, solo con gli occhi, ma con il cervello o, meglio, con la mente, con tutto l’insieme delle nostre esperienze, idee, sentimenti, desideri. La percezione e il concetto devono convergere.
Guardare è compiere un viaggio, inoltrarci in qualcosa di non ancora conosciuto, ma che ci sembra familiare.
Come dice Manola, “la copertina dà spettacolo” che mette in scena “in un piccolo spazio” storie, pensieri, metafore, significati, che diventano espliciti solo nell’incontro con ciascun lettore, solo quando si crea un “ponte” tra l’autore e il lettore. In altre parole, un testo e una copertina sono morti se non vengono vivificati da chi legge e li guarda. Formano un insieme che ogni volta che si approfondisce la lettura o la visione. Per questo viene ricordato il motto oraziano Ut pictura poësis. A questo serve anche il libro di cui discutiamo: ad aiutare la nostra consapevolezza, a non considerare la copertina come un’ovvietà, una semplice custodia delle pagine. Dobbiamo, invece, essere capaci di interrogarla e capirla. “Ovvio” (obvius) si dice etimologicamente di cosa che s’incontra lungo la via o di una persona che risulta accessibile, alla mano, che non esige molti sforzi nel lasciarsi avvicinare o nel concedere confidenza. Andare oltre l’ovvio, togliere dalle cose – dalle copertine, in questo caso – la polvere della banalità e dell’oblio che ne nasconde la natura e la storia, non solo è possibile, ma costituisce la premessa di ogni ricerca e scoperta.
La trasformazione degli oggetti in cose presuppone anche una sviluppata abilità nel risvegliare memorie, nel ricreare ambienti, nel farsi raccontare storie.
Come si possono rappresentare visivamente entro “gabbia grafica” le vicende familiari di un notaio nuorese (che rivelano tratti chiaramente autobiografici) inserita entro la più vasta storia corale di persone che non hanno altra storia se non quella del “loro essere nati” e morti, di gente, parafrasando il titolo di un libro di Sergio Atzeni, che passa sulla terra leggera, senza altra traccia se non quella di eventualmente le ricorda e, grazie all’arte, ne eterna la memoria?
Come può questa trama locale “su gente sparita dalla terra e dalla memoria, gente dissolta nel nulla” assumere un significato universale, riguardare direttamente noi tutti? Come si lega il macrocosmo della storia del genere mano al microcosmo della Sardegna, dove religione e diritto, Chiesa e Tribunale, vita e giudizio finiscono per coincidere. Ne Lo spirito religioso dei sardi (un articolo pubblicato su “Il ponte” nel 1955), Satta osserva che lo spirito religioso per tutti i sardi si materializza in due edifici: “l’uno di essi è la Chiesa, l’altro è il Tribunale […] Chiesa e Tribunale (questa chiesa messa lì di fronte a questo tribunale) non sono due cose, ma una sola, la sede umile e solenne nella quale ognuno di noi riceve l’investitura della legge, che, come una sacra unzione, o come un marchio rovente, si porta appresso tutta la vita. Legge umana e divina ad un tempo, se pure questa tardiva distinzione ha qualche senso per noi”. Il tribunale, definito ne Il giorno del giudizio “il dio terragnolo”, e la chiesa “il dio anfibio”, in quanto opera in cielo e in terra, nell’al di là e nell’al di qua (cfr. Il giorno del giudizio, p. 40), si fronteggiano e si completano a vicenda. Il carattere asciutto dei sardi, abituati come pastori a riflettere in silenzio a contatto con la natura si ritrova qui.
Qual è il senso del nostro esistere e qual è il destino di tutti? Un mistero che non conosciamo, ma cui cerchiamo di dar risposta, come ha fatto Salvatore Satta dicendo “Non si può essere nati invano”.
Ogni copertina di quelle qui raccolte tenta di condensare il libro in un’immagine inserita in una “gabbia grafica” in cui i caratteri tipografici e la loro disposizione sono essenziali alla coesione dell’insieme. Non sarò io a illustrare le copertine, che a partire dalla prima (caratterizzata da una illustrazione di Foiso Fois, un pittore e studioso di architettura sarda che ho conosciuto), che mi sembra la più bella. Molte hanno foto relative alla Sardegna o dipinti di pittori sardi; altre allegorie, come Il carro fantasma di Salvador Dalì, altre dei disegni astratti o dei simboli della caducità o di un mondo chiuso, altre solo grafica.
Lascio la parola a Manola Bacchis, non prima di averla elogiata per quest’opera così innovativa e colta, che – è proprio il caso di dire – ci apre gli occhi sulle copertine e ci mostra una porta per comprendere meglio Il giorno del giudizio.
Remo Bodei
Lettera Nel segno del giudizio
Vorrei ringraziare Manola Bacchis per questo bellissimo lavoro su mio nonno.
Ad essere rigorosi, il lavoro di Manola non è “un lavoro su mio nonno”, come l’ho chiamato, ma è “tecnicamente” un lavoro di indagine e di analisi sulle copertine dei libri di Salvatore Satta, dal lontano 1977 ai giorni nostri.
Per me, però, è soprattutto un lavoro sull’uomo e dunque sul nonno Salvatore o Bob, come veniva menzionato e chiamato in famiglia.
Non riesco purtroppo a distaccarmi più di tanto dall’aspetto umano.
E Manola non mi aiuta nel distacco, perché il suo legame con l’autore che ha deciso di indagare è un legame intenso, affettivo, quasi un legame personale. Un legame femminile, a tutti gli effetti. Lo conosce bene, l’ha studiato bene, è entrata in qualche modo nella sua vita, svelando peraltro, a me e ad altri membri della famiglia, aneddoti che non conoscevo.
Così come femminile è tutto il lavoro di Manola: un lavoro preciso, attento, in cui emergono le sue competenze sociologiche e pedagogiche ma anche, non da ultimo, un lavoro che possiede una chiave di lettura “sensibile” della realtà che incontra. E forse questo è il dato che me l’ha resa particolarmente cara.
Manola compie un’opera di tessitura della relazione – Muraro ci ricorda quanto la tessitura della relazione sia propriamente femminile e materna – riconoscendo significato e valore, e permettendo quindi vita, ad alcuni elementi e aspetti delle copertine e della storia di Salvatore che altrimenti passerebbero inosservati al lettore.
Voglio citare l’analisi di tre copertine e, di queste tre, una in particolare, che mi toccano più di altre per deformazione professionale e personale e in cui l’opera di “tessitura” è evidente: sono copertine di tre edizioni del libro in cui vi sono immagini di donne.
La prima copertina è quella della pubblicazione della casa Insel, versione tedesca del Giorno del Giudizio (p.74 del testo): ci sono due donne sarde in costume nuorese davanti alla Chiesetta della Grazie, una di fronte e l’altra di profilo; la seconda copertina è quella della versione slovena del Giorno del Giudizio (p. 88 del testo): in copertina una donna anziana che sembra evocare Donna Vincenza.
Terza ma prima nel mio indice di gradimento, la copertina dell’edizione de Il giorno del Giudizio pubblicata da Club Edizioni (nel testo, p. 111) che raffigura le “Tre donne” di Umberto Boccioni. Vi salvo dai miei paragoni incompetenti con le “Tre età” di Klimt (uno dei mie quadri preferiti) ma noto che insieme alle altre due citate sopra, è l’unica copertina che contiene un’immagine di donne, per di più in tre momenti della vita. Quindi è preziosa due volte: evoca le donne nelle opere e nella vita di Salvatore Satta e ricorda al mondo, e al lettore in particolare, che ne “Il giorno del Giudizio” le donne hanno un peso significativo. La copertina evoca, come scrive Manola, le parole di Salvatore sulla madre, Donna Vincenza, alias Valentina: “In fondo che cosa occorre alla donna, se vogliamo essere sinceri in un tempo come questo in cui è così difficile esserlo? Nient’altro che l’amore e la capacità di amare”. A me evoca anche, oltre alla mamma, la preziosa compagna di vita di Salvatore, Laura. Pezzo essenziale della sua vita.
Sono un’accanita lettrice e, in genere, ricordo abbastanza bene le copertine dei libri che leggo. Mi capita anche di dimenticare l’autore o il titolo di un testo ma non la copertina che, come spiega bene la Bacchis nelle prime pagine, è “sostanza” e non solo “custodia o contenitore” di un libro.
Così ho fatto un gioco un poco irriverente. Ho cominciato ad osservare e a riflettere sulla copertina che apre e presenta il libro di Manola sulle copertine di Salvatore.
Ovviamente l’ho fatto con i miei strumenti: ci ho messo dentro un pò di diritto, un pò di maternità, il mio femminile, la mia “relazione” con questo nonno tanto prezioso quanto ingombrante (La mia esperienza diretta del nonno è assai breve, è durata fino ai miei primi tre anni di vita, il resto è frutto della mia ricerca personale, del silenzio della famiglia e delle lunghe conversazioni e racconti della nonno)
La foto ritrae un’opera di Giuseppe Carta, “Sul filo della memoria” . Dall’opera emerge la fatica di Manola, il sudore della costruzione: una pila di libri faticosamente messi insieme e studiati uno dopo l’altro (quelli che ha studiato Manola prima di scrivere il suo libro sono certamente ben più dei 21 in foto), colpisce anche la luce che illumina i libri, la vita e il sapere che raccolgono, rispetto al buio circostante (forse l’ignoranza del sentimento e del sapere di chi non si interessa ai libri?).
Infine la civetta o il gufo (confesso che non so dire con certezza se sia un gufo o una civetta ma propendo per la civetta). Ecco, arrivata alla civetta sono entrata in crisi. Sovrasta la cima dei libri. Giuseppe Carta, e con lui di rimando Manola e l’editore avranno voluto evocare Pallade Atena? Non so se sia così ma l’idea mi è piaciuta molto e mi sembra calzante con il lavoro della Bacchis: la dea guerriera, figlia prediletta di Zeus, alla quale il padre affida gli incarichi più difficili, vigila attenta sul valore salvifico dei libri e della cultura in genere. La stessa cultura che Manola ha diffuso in modo prezioso con il “Il segno del giudizio”.
Ignazia Satta
grazie al prof. Remo Bodei e a Ignazia Satta per i loro preziosi contributi che ora sono godibili anche da chi non ha presenziato il 31 gennaio alla Gipsoteca di Arte Antica dell’Università di Pisa.