I PRIGIONIERI DI GUERRA NELL’ISOLA: LA REGIA NAVE SARDEGNA

di Dario Dessì

Durante la prima guerra mondiale, la Regia Nave Sardegna, una corazzata, ormai considerata obsoleta in quanto agli armamenti, faceva  spesso la spola tra il porto di Civitavecchia e quello di Golfo Aranci, situato nella costa nord – orientale della  Sardegna. 

All’andata trasportava prigionieri di guerra mentre, al ritorno, la nave era affollata da nuove reclute che andavano  a sostituire i combattenti sardi caduti, feriti o dispersi, appartenuti alle  tante  unità delle forze armate italiane, tra le quali soprattutto la Brigata Sassari

Spesso e volentieri quando i soldati sardi vedevano passare le colonne di prigionieri austriaci, guardati a vista  da una buona  scorta  di carabinieri o di soldati d’altri corpi, armati di tutto punto, solevano scherzare  esclamando: “Salutatemi la Sardegna”. In quel saluto  c’era un chiaro riferimento sia al nome della  nave, che avrebbe trasportato i prigionieri in Sardegna, sia a quello dell’isola, dove venivano portati per  trascorrere il resto della guerra in  prigionia.

I prigionieri austroungarici nell’isola dell’Asinara

“Tra il 16 dicembre 1915 e il 12 febbraio 1916 erano stati imbarcati nel porto di Valona22.920 soldati austroungarici  dei circa 70.000 fatti prigionieri dai serbi e fatti confluire nel porto albanese, dopo una marcia disperata da Nisch. 

Tutti quelli che non erano morti per fame, stenti e malattie erano stati presi a bordo di quattordici piroscafi, dei quali undici italiani, due francesi e uno inglese. Il colera che già serpeggiava fra i prigionieri austriaci, era scoppiato a bordo con violenza.

Le navi re Vittorio e Cordoba erano arrivate all’isola dell’Asinara con circa 500 morti ciascuna, tra i quali moltissimi membri dell’equipaggio.

Il trasporto però doveva proseguire e in quindici viaggi erano stati trasportati 5.000 uomini.

L’isola era inizialmente attrezzata per accogliere solo poche centinaia di ammalati. Di conseguenza si era creata una lotta per la sopravvivenza in condizioni ambientali difficilissime che avrebbero creato migliaia di morti.

I patimenti subiti durante la marcia verso Valona, la fame e soprattutto il colera avevano avuto il sopravvento. 

Per quanto l’esercito italiano avesse, in seguito, impiegato, e con  successo, il meglio delle sue risorse, c’era stato un intervallo di tempo durante il quale l’Asinara era diventata un vero inferno. Il numero dei decessi all’Asinara era stato tale che il Prefetto di Sassari aveva vietato la pesca di frutti di mare e di polpi nei pressi dell’Asinara in quanto i corpi di quei disgraziati venivano direttamente precipitati in mare”.Da libro Tripoli di Enrico A. Valsecchi.

 

Pare che in realtà quei poveri disgraziati catturati dai serbi, prima della loro definitiva disfatta nell’autunno del 1915, assieme alle autorità e ai resti dell’ esercito di Belgrado fossero in viaggio alla volta della Francia, dove gli sarebbero stati assicurati asilo e protezione in attesa della fine del conflitto.

A circa metà viaggio, a causa dell’esplosione del colera a bordo di alcune navi fu deciso l’approdo nell’isola dell’Asinara, ritenuta un luogo ideale per la quarantena dei prigionieri e degli uomini degli equipaggi. 

Tanti altri prigionieri austro ungarici, catturati dal Regio Esercito nei fronti del Triveneto,  venivano invece  mandati in Sardegna, considerata un luogo sicuro e ideale per la loro detenzione. Tanti di quei prigionieri erano lasciati liberi di decidere sull’opportunità di collaborare nei lavori in campagna, data la totale l’assenza dei contadini sardi, che avevano lasciato l’aratro per imbracciare il fucile.

Ad Assemini si raccontava che, durante le stagioni morte invernali di quegli anni di guerra, a quei giovani prigionieri di guerra fosse stato affidato il compito di scavare nel sottosuolo di via Principe di Piemonte,  tra la chiesa parrocchiale gotico – aragonese del XVI secolo  di San Pietro e l’oratorio dell’ XI secolo di  San Giovanni.

Ad alcuni di essi fu fatto credere che si stava cercando un antico tesoro, ma in realtà si trattava di riesumare alcune salme sepolte in tempi antichi nei sagrati delle due chiese per  trasportarlee inumarle in un camposanto più moderno. 

A quei prigionieri, però, era data almeno la possibilità di non rimanere in ozio e di tenere in forma il proprio fisico.   

 A proposito dei di prigionieri sepolti nell’isola dell’Asinara, i Comuni di Stintino e Porto Torres con il Parco dell’Asinara, l’Università di Sassari e l’Università di Belgrado hanno posto le basi per un progetto di grande interesse volto a far luce su una delle vicende più tristi della prima guerra mondiale:  la morte per tifo e colera di 4.574 dei 23.379 prigionieri dell’esercito austro-ungarico, che dopo una tragica, interminabile marcia tra le montagne della Serbia e dell’Albania, laceri, prostrati dalla fame e dalle malattie, furono imbarcati a Valona, nel dicembre del 1915, per essere trasferiti per un periodo contumaciale di quarantena nella Stazione sanitaria dell’Asinara, istituita dal Governo italiano nel 1885.  Per migliaia di loro l’isola del Diavolo sarebbe diventata una tomba. Ma quella delle prime settimane del 1916 non è solo la storia dell’orrore della morte di massa nella piccola isola spazzata dal vento dove in pochi giorni si dovettero scavare le fosse comuni per più di 4.000 morti di colera, cosparsi di calce viva. È anche la storia di un pugno di uomini, ufficiali e medici civili e militari, che di fronte a quell’umanità tormentata, sofferente, si adoperò oltre ogni immaginazione per far sì che tutti avessero cibo, riparo, cure. Per quelli che riuscirono a salvarsi fu la terra del miracolo, tanto che alcuni prigionieri austriaci vollero erigere la piccola chiesa che sarà restaurata in occasionedelCentenario.
Il progetto prende le mosse da una campagna di bioarcheologia volta a indagare la vita dei profughi presenti nell’isola e la loro origine etnica (ungheresi ecc); la campagna di scavo e analisi del Dna degli individui sarà portata avanti dal dipartimento di Scienze biomediche dell’Università di Sassari, con il professor Salvatore Rubino.
Infine, sarà oggetto di restauro anche l’Ossario di CampuPerdu e le due steli costruite dai prigionieriaustro-ungarici.
Sarà affissa una lastra commemorativa e organizzate attività didattiche e convegni.

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