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Avete mai accostato due tessuti tinti l’uno con pigmenti naturali, l’altro col colore chimico? Nessun rosso, alcun giallo né l’azzurro e né il verde artificiali potranno mai restituire la luminosità e la pienezza delle tinture vegetali estratte dal succo di certe bacche e di speciali erbe selvatiche. Ai nostri occhi ammaestrati dall’industria del prét-à-porter il confronto diventa una rivelazione. Daniela Zedda li ha scovati e accostati tutti, i colori della natura. Un arcobaleno di tessuti tinti con le erbe da un giovane artigiano di Atzara, un dottore in Scienze naturali che ha aperto il suo laboratorio grazie al contributo de minimis. Quella del moderno alchimista che dosa bacche e fiori dentro contenitori di acciaio inox è solo una delle storie raccontate dalla fotogiornalista cagliaritana in Mastros, trenta immagini istantanee, un vero e proprio fotodocumentario sul mondo delle piccole botteghe della Barbagia, avamposto degli artigiani che come canne al vento resistono davanti allo strapotere dei centri commerciali, dei prezzi stracciati dei cinesi, della paccottiglia che ha ferito a morte l’estetica e la qualità. Riunite in un libro (edizioni Cambi) uscito due anni fa ed esposte in diverse città della penisola e a New York, le fotografie di Daniela Zedda erano in mostra al Museo archeologico di Rieti nell’ambito del Reate Festival (patrocinio dell’assessorato regionale al Turismo della Sardegna). Hanno sfilato così gli uomini e le donne che conservano e tramandano un’antica sapienza, i custodi di una tradizione che può piegarsi solo in minima parte alle leggi del mercato, quando queste non minacciano la qualità del prodotto. È la resilienza di classe quella colta nel volto, nelle mani e nelle creature dei maestri di ciascuna arte. L’obiettivo di Daniela Zedda documenta la lavorazione del pane carasau, oggi cotto e tostato nei forni elettrici che corrono su un nastro velocissimo: e la pasta che diviene ostia croccante sembra avere lo stesso profumo di una volta anche se viene domata dalle maglie delle macchine d’acciaio. C’è l’eco dei campanacci accordati a Tonara e il talento fisiognomico degli intagliatori di maschere di Mamoiada, nel ritratto di un inquietante mamuthone. La pazienza delle tessitrici e delle ricamatrici, del sarto del velluto e del pastore che fa il formaggio. E poi una foto, sintesi massima tra passato e presente, con un ragazzo che porta su cohone ‘e Vrores, il pane votivo della festa di San Giovanni di Fonni: centosessanta minuscoli uccellini e gallinelle fatti di pasta e mandorle, posati uno per uno su bastoncini disposti a raggiera e a più piani, come una torta nuziale. Tradizione unica in Sardegna, e una sola è l’artigiana custode dei segreti del pane sacro. Ma i colori dell’alchimista di Atzara basterebbero da soli a raccontare l’ardimento dei maestri artigiani. La pienezza del rosso ottenuto con la robbia, la luminosità del giallo rapita alla dafne, e poi le gradazioni di tonalità del verde, dell’azzurro e così via – sono il risultato di un’arte tramandata nei secoli dalle donne che lavoravano la lana e tingevano l’orbace con le bacche, i fiori e le piante del bosco. In Barbagia, le vecchie ricordano ancora la storia dei chimici tedeschi che arrivarono nei paesi dell’interno per studiare le piante da cui venivano estratte le tinture. Per anni, e inutilmente, gli ambulanti e le mercerie cercarono di convincere le donne barbaricine a usare le tinture a base di anilina. Qualche massaia si lasciò tentare, ma il risultato fu pessimo. C’è un giovane artigiano che ci ricorda che la storia non va dimenticata. Daniela Zedda ci fa conoscere lui e tutti gli altri.