FILIPPO MELIS E LA STRAGE DEL VAJONT: LA PRESENTAZIONE DEL LIBRO ALL’ASSOCIAZIONE “SEBASTIANO SATTA” DI VERONA

nell'immagine di Andrea Zonca, da sinistra l'alpino Lorenzo, Salvatore Pau e Filippo Melis


di Annalisa Atzori

Riprendono le serate culturali alla Sebastiano Satta di Verona. E lo fanno  con un argomento forte, scomodo, troppo spesso archiviato nella mente dei più tra le “tragedie e i disastri” che hanno colpito il nostro Paese negli anni passati. Ma qui, come più volte ribadito da Filippo Melis, si è trattato di strage: creata dall’uomo contro l’uomo. Per definizione, una strage è “il delitto di chi, al fine di uccidere, compia atti tali da porre in pericolo la pubblica incolumità; uccisione violenta di un gran numero di persone” .

Filippo Melis (nato a Quartu Sant’Elena, laureato in Lettere e Letterature straniere a Cagliari, residente a Girona in Catalunya, si occupa di linguistica e di neologismi nella lingua sarda) inizia con il ringraziare l’associazione sarda di Verona per l’ospitalità e in particolare Mauro Bianchini e Silvia Serra, che sono stati promotori della serata nella sede di Forte Chievo. Non è facile parlare di Vajont nemmeno nelle zone in cui è avvenuto il gravissimo fatto.  Melis definisce le sue opere “poesia sociale” e chi se ne interessa è indubbiamente persona particolarmente sensibile.   Melis si auto definisce sardo, non italiano, non vuole essere complice di uno Stato che ammazza i suoi figli … il dolore di chi è sopravvissuto a quella strage è anche il suo dolore, lo sente proprio dentro. E vuole dar voce a tutti i superstiti e ai sopravvissuti. Nelle zone del Vajont ci tengono a questa distinzione: i superstiti sono coloro che non erano lì la sera del 9 ottobre 1963, erano lontani per svariati motivi e si sono quindi salvati. I sopravvissuti sono coloro (pochi) tirati fuori dal fango …

Il video che funge da introduzione alla serata è stato realizzato da Diego De Riz, che Melis ringrazia calorosamente.

Il primo dei due volumi presentati è “AQVA – Non ci sarà la morte”, raccolta di 35 poesie, di cui 33 dedicate al Vajont. Delle ultime due poesie, una è in ricordo del ciclone Cleopatra  che ha colpito la Gallura e la zona di Olbia nel novembre 2013. L’altra è dedicata a tutti quei fiumi il quale corso viene deviato e oltraggiato dall’uomo per i suoi interessi,  e che torna a scorrere nel suo antico letto, prima o poi …

Il secondo volume è “LVTVM – Memoriae” che in latino significa fango/melma, ma qui anche persona spregevole, attratta dal sangue e tornata a finire di schiacciare chi è rimasto in vita. Le foto presentate sono di Bepi  Zanfron, fotografo ufficiale del Vajont, venuto a mancare nel febbraio di quest’anno.

Sono le 22,39 del 9 ottobre 1963. Dal monte Toc (dal friulano patoc = marcio, fradicio, siamo nelle Prealpi bellunesi, al confine tra Belluno e Pordenone, che nel ’63 era  provincia di Udine) si stacca una frana di 270 milioni di metri cubi di terra e sassi, ad una velocità di circa 100 km orari. La frana si riversa nel bacino idroelettrico artificiale creato dalla diga sul torrente Vajont. Ottanta milioni di metri cubi di acqua si sollevano,l’onda di  250 metri  scavalca la diga lasciandola quasi intatta.  L’esondazione  travolge inizialmente  Erto e le frazioni di Casso e si riversa nella valle del Piave. E come un proiettile, l’onda d’urto dovuta allo spostamento d’aria rade al suolo Longarone che si trova a valle, il paese è  praticamente  al centro di un mirino. Dopo quattro minuti arriva l’ondata di acqua e fango, a spazzare via ciò che è rimasto. La potenza dell’onda d’urto che ha colpito Longarone è equivalente, se non superiore, a quella generata dalla bomba atomica sganciata su Hiroshima. La Madonnina di Longarone è stata ritrovata a Fossalta di Piave, a ben 120 km di distanza.  I morti “ufficiali” sono 1917. Sono 19 i paesi e le frazioni coinvolte, tra Veneto e Friuli.

Per Filippo Melis, parlare di Vajont è cosa intima. Gli amici di Belluno sono persone speciali, gli fanno dono di immagini e ricordi. Il titolo AQVA è scritto in latino per usare le lettere a punta, che Filippo collega al dolore. V è anche la forma della diga. Q è l’acqua che esonda.  AQVA rappresenta la natura oltraggiata che si è ripresa il suo, ciò che le era stato tolto. Ma anche l’acqua della vita, le due facce della stessa medaglia (per questo “Non ci sarà la morte”). Nel luogo dove è stata la morte, è tornata la vita. Longarone è risorta dove  prima c’era Longarone.

Filippo Melis immagina di raccontarci una storia. La prima poesia è dedicata proprio a Longarone. Quando lo Stato si vuole tirare fuori dalle responsabilità cambia i termini, le definizioni. Allora il Vajont diventa “tragedia”, “disastro”. Ma qui sono mancati prudenza e buon senso. La diga è stata costruita bene? Sì, ma nel posto sbagliato. Melis chiama la diga “il mostro”: è rimasta in piedi, tutti gli altri sono morti.

Cicatrice a forma di M” recita un altro suo verso. E’ la forma della frana staccatasi dal monte Toc, si vede da Casso, è lì a monito e a ricordo indelebile.

Hanno detto 1917 morti. Ma tra di loro c’erano 35 mamme in dolce attesa. Quei bambini mai nati non sono forse anche loro vittime del Vajont? E le persone che scavavano con le mani per trovare i propri cari, magari qualcuno di loro è morto per il troppo dolore, perché questi non sono contati tra le vittime? E i sopravvissuti, morti viventi, non sono forse vittime? Quante sono veramente le vittime della strage del Vajont?

Melis ha il Vajont nell’anima, è tornato più volte negli ultimi anni. E quando non è lì a quelle valli e montagne “solo il vento può accarezzarle, adesso che sono via”.

Le “bestie umane” hanno confezionato la strage. Gli interessi di pochi si basano sul dolore di tanti. Per la strage del Vajont il mandante è lo Stato. L’esecutore, lo Stato stesso.

Gli abitanti di Erto e Casso non hanno nemmeno potuto scavare per cercare i familiari. Il giorno dopo sono stati fatti sgomberare, portati via a forza da ciò che restava delle loro case, dei loro orti, delle loro stalle, senza poter badare al bestiame, senza poter recuperare le poche cose salvabili. Un esodo, caricati sui treni e portati via, immagine tristissima che evoca altri treni, altre persone, portate ai campi di concentramento.

Eppure gli abitanti di Erto e Casso avevano più volte segnalato la pericolosità della diga costruita in luogo non idoneo, geologicamente instabile (il versante della montagna era infatti di natura calanchiva),  loro che vedevano cedere i muri delle case, le crepe aprirsi nelle strade. Ma niente, nessuno li ascoltava. Solo la giornalista Tina Merlin che scriveva su “L’Unità” aveva dato loro voce. Le istituzioni non la ascoltarono, la ditta SADE la denunciò per “diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico”. La Merlin fu poi assolta per non aver commesso il fatto. Ciò che dichiarava non era quindi falso? Sarebbe stato il  caso di indagare? Niente, non si fece niente. La strage del Vajont non è stata causata dalla semplice incuria, ma da  gravissima irresponsabilità. Una sciagura dolosa e colposa. Soprattutto evitabile, ed è questo che provoca rabbia e sgomento.

Tra i presenti in sala c’è Lorenzo, un alpino che partecipò alle operazioni di soccorso nel Vajont. Era uno di quei ragazzi, ventenni, che in un attimo sono diventati uomini, hanno visto in faccia la “nera dama”, Melis per loro rispetto ha voluto chiamare così la morte. I soccorritori che da bambini sono diventati uomini e che si sono portati il Vajont dentro. Per sempre. Anche loro sono vittime.  Melis è orgoglioso di far parte del popolo italiano, non dello Stato italiano. Ci tiene a questa precisazione. E l’alpino Lorenzo ha gli occhi colmi di lacrime nel ricordare quei momenti, i corpi (il più delle volte solo pezzi di corpi) di persone e di animali che riaffioravano dal fango  sono immagini indelebili, l’emozione è troppa per poter essere repressa.

Passavano sulla terra leggeri” è dedicata ai bambini del Vajont, a quelle 457 vittime con meno di 15 anni che come in un gioco sono passati dal sonno alla morte. Hanno cambiato letto, come si fa a volte tra fratelli per gioco, prima di dormire. Loro hanno scambiato il loro letto con il fondo del Piave.  E dormono ancora.

Filippo Melis cerca di smuovere le coscienze, vuole far passare il messaggio che non possiamo essere complici, né spettatori né tantomeno protagonisti di un’altra strage.

Un’altra poesia è dedicata al cimitero. Quello di Longarone, il cimitero delle vittime del Vajont. Quel cimitero moderno e voluto dalle istituzioni, pagato con i miliardi arrivati da Stato/Enel/Montedison è  un falso, un ulteriore schiaffo alla memoria delle vittime e di chi le ha sotterrate e piante. E’ un immenso giardino, con lapidi in marmo di Carrara, i nomi scritti tutti allo stesso modo, nessuna corrisponde alle vere sepolture. Per rendere il luogo più “accogliente” sono state rimosse le vecchie lapidi (quelle dove i familiari delle vittime avevano scritto una dedica, un ricordo, un grido di dolore contro chi non aveva evitato la strage…). “Casualmente”  le lapidi che indicavano il defunto quale vittima di eccidio premeditato sono sparite del tutto …

Filippo Melis parla del Vajont perché ad oggi esistono altri Vajont, altre stragi annunciate e evitabili, e nessuno deve o può ignorare e dimenticare. Solo quando l’uomo tornerà a sentire il dolore degli altri come il suo dolore, tornerà a far parte della razza umana.

(www.acquaevento.eu)

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