ANTONIO GRAMSCI SULLA DIGNITA’ UMANA E SULLA LINGUA SARDA (DUEMILARTISTI17, IL TESTO NEL CATALOGO DEL SPOLETO ART FESTIVAL)


di Antonio Maria Masia

Nella ricorrenza  dell’80° anniversario della morte di Antonio Gramsci (Ales 1891 – Roma 1937) e per rendere, nel mio piccolo, onore, memoria e merito a questo autentico gigante del pensiero umano, come unanimemente riconosciuto in tutto il mondo, a questo immenso cervello (anche fisicamente le proporzioni della sua testa erano superiori al resto del corpo) che il fascismo cercò, purtroppo riuscendoci in buona misura, di non far funzionare, voglio riflettere sulle sue considerazioni relative alla lingua, alla cultura, al folklore della sua e nostra Sardegna. Lo farò partendo, come peraltro fanno tutti coloro che vogliono approfondire il tema Gramsci e la lingua sarda, con la notissima e pluri-citata lettera dal carcere alla sorella Teresita.

Milano, 26 marzo 1927

Carissima Teresina, …….Devi scrivermi a lungo intorno ai tuoi bambini, se hai tempo, o almeno farmi scrivere da Carlo o da Grazietta. Franco mi pare molto vispo e intelligente: penso che parli già correntemente. In che lingua parla? Spero che lo lascerete parlare in sardo, e non gli darete dei dispiaceri a questo proposito. E’ stato un errore, per me, non aver lasciato che Edmea, da bambinetta, parlasse liberamente in sardo. Ciò ha nociuto alla sua formazione intellettuale e ha messo una camicia di forza alla sua fantasia. Non devi fare questo errore coi tuoi bambini. Intanto il sardo non è un dialetto, ma una lingua a sé, quantunque non abbia una grande letteratura, ed è bene che i bambini imparino più lingue, se possibile. Poi l’italiano, che voi gli insegnerete, sarà una lingua povera, monca, fatta solo di quelle poche frasi e parole delle vostre conversazioni con lui, puramente infantile; egli non avrà contatto con l’ambiente generale e finirà per apprendere due gerghi e nessuna lingua: un gergo italiano per la conversazione ufficiale con voi e un gergo sardo, appreso a pezzi e bocconi per parlare con gli altri bambini e con la gente che incontra per la strada o in piazza. Ti raccomando, proprio di cuore, di non commettere un tale errore e di lasciare che i tuoi bambini succhino tutto il sardismo che vogliono e si sviluppino spontaneamente nell’ambiente naturale in cui sono nati: ciò non sarà un impaccio per il loro avvenire, tutt’altro. ………. Abbraccio Paolo affettuosamente: tanti baci a te e ai tuoi bambini. Nino

Antonio Francesco Sebastiano Gramsci, chiamato Antonio e familiarmente Nino, in questa toccante lettera dal carcere milanese di San Vittore, non solo chiede con fierezza e forza all’amata sorella Teresità  che rassicuri la madre Giuseppina Marcias  (e con essa  tutta la famiglia, anche  quella allargata della comunità paesana) precisando  che:  “la mia onorabilità e la mia rettitudine non sono affatto in quistione: io sono in carcere per ragioni politiche, non per ragioni di onorabilità. Credo proprio che avvenga l’inverso: se non tenessi alla mia onorabilità, alla mia rettitudine, alla mia dignità, se cioè fossi stato capace di avere una così detta crisi di coscienza e mutare di opinioni, non sarei stato arrestato e non sarei andato a Ustica, tanto per cominciare”, ma la interessa anche, in un certo senso la responsabilizza ad un problema, per lui della massima importanza.

Si tratta della questione (o quistione, come lui usava scrivere e nelle Lettere e nei Quaderni del carcere)  linguistica con riferimento in questo caso alla sua lingua materna e dell’infanzia: il Sardo. 

Soffermandoci sui due richiami contenuti nella lettera, quello relativo alla sua granitica dignità di cittadino libero, democratico e difensore fino all’estremo dei suoi principi morali, politici e etici, e quello relativo alla determinante importanza della lingua materna sull’evoluzione dell’individuo e della comunità di appartenenza e non solo, non possiamo non concordare che stiamo parlando di temi che concorrono entrambi a determinare l’identità e il senso civico delle persone, di qualsiasi luogo e latitudine, etnia, colore e religione.

Non sarebbe finito in galera se avesse mutato il suo pensiero su certi valori, fondamentali e non negoziabili: è stato questo il credo di Antonio Gramsci.

Se avesse ceduto a compromessi, se avesse, come in tanti fecero allora e fanno oggi, ceduto alle lusinghe del potere costituito, quando arrogante, prepotente e pervasivo, se avesse moralmente piegato quella schiena, peraltro fisicamente, già fortemente piegata sin dalla nascita, dal carcere e dalla malattia, la sua vita e la sua biografia avrebbero incontrato altro destino. Ma non quello della fiera e orgogliosa dignità.

E chiede fortemente che la madre, alla quale era particolarmente affezionato, lo sappia e che la famiglia lo rivendichi all’esterno, con orgoglio,  contro le inevitabili accuse e congetture mistificatorie che circolavano anche nel ristretto ambiente del suo paese e della sua Isola.

Un insegnamento, un esempio grandissimo che, purtroppo, solo ad anni di distanza dalla sua scomparsa ha iniziato, lentamente, a farsi strada fra i giovani sardi, quelli nati negli anni  40 della seconda guerra e cresciuti negli anni 50 -60.

Lo abbiamo sperimentato durante il nostro corso di formazione scolastico : poco o per nulla Gramsci e per nulla  storia, geografia e lingua sarda.

Gramsci, bandito (espunto e bandito), il resto folklore deteriore, da popolino arretrato.

 Anzi occorreva ancora, come all’epoca fascista, non contaminare l’insegnamento stile “De Sanctis” dell’italiano (ancorchè utile, ma assurto a potere decisorio calato dall’alto, anche a prescindere dall’effettiva volontà dell’ottimo ministro alla Pubblica Istruzione di Morra)  che si riteneva  unificante e coesivo dell’identità nazionale, con la cosiddetta lingua sarda (sa Limba).

Considerata, anche dai vertici istituzionali della Regione Autonoma della Sardegna, pur dotata, pertanto,  di autonomia, alla stregua di un guazzabuglio di dialetti non unificabili, non riconducibili ad un minimo comune denominatore e pericolosi per la tenuta della Nazione.

E nelle famiglie, all’interno delle quali si parlava in sardo, fu facile presa la percezione di un disvalore, di un segno di arretratezza e ignoranza continuare a parlare in sardo ai figli e ai nipoti: decretando così la morte della lingua, che io spero non definitiva;  morte che comincia lì.

E pensare che quel cervello, che non doveva funzionare, lucidamente e appassionatamente analizzando e dettando alle mani e agli occhi stanchi del carcerato, diceva e scriveva sin dal suo primo apparire come pensatore, giornalista e scrittore, concetti fondamentali e profetici e sulla dignità umana  e sulla lingua sarda.

Concetti interdipendenti e ineludibili.

Concetti sui quali nei decenni successivi a partire dagli anni 70, a danni e guasti però combinati, hanno iniziato ad esprimersi intellettuali italiani e stranieri,  pedagogisti, glottologi, psicologi, psichiatri, insegnanti, artisti, ecc… 

Lascia, suggerisce autorevolment, Nino,  alla sorella, che i tuoi figli parlino il sardo, lascia “che i tuoi bambini succhino tutto il sardismo che vogliono e si sviluppino spontaneamente nell’ambiente naturale in cui sono nati: ciò non sarà un impaccio per il loro avvenire, tutt’altro”.

Grandissimo!

Se penso che nel 1926 Gramsci  ha usato  il termine “succhiare”, così come fa il bambino quando, avvinghiato al seno della madre, attinge l’elemento fondamentale per la sua  crescita e il suo equilibrato sviluppo psico-fisico, e osservo, purtroppo,  quanto sia stato disatteso dagli stessi  Sardi questa precisa e calorosa indicazione del piccolo grande uomo in carcere, provo rabbia e delusione.

Due generazioni di giovani sardi privati del loro naturale nutrimento linguistico! Definitivamente!

Perpetuando così quella aberrante sottomissione socio economica e culturale che si è imposta inizialmente, nel momento della pur necessaria ed inevitabile unificazione dell’Italia, da parte del Regno di Sardegna (ma in realtà di Piemonte/Savoia).

Sottomissione rilevata e stigmatizzata da Gramsci nel 1916 quando sottolinea che nel 1° Congresso Regionale Sardo fuori dell’Isola nel 1914 tenutosi a Roma in Castel Sant’Angelo e organizzato dall’Associazione dei Sardi della Capitale (l’antenato dell’attuale Gremio) fu fatto rilevare che l’avarizia e la tirchieria dei Savoia ad investire per lo sviluppo e la crescita socio economico culturale della Sardegna erano inversamente proporzionali al prelievo fiscale imposto ai Sardi, pari o superiore a quello delle Regioni ricche:  Piemonte, Lazio, Toscana ecc…. Come dimostrò, nel convegno,  per l’appunto il deputato Carboni-Boy. E su questo punto commenta  lo storico sardo Federico Francioni: . “Non siamo di fronte all’uso di una parola ad effetto, in quanto Gramsci dimostra di essere convinto dell’esistenza di un colonialismo esercitato ai danni dell’Isola” “Colonia, colonialismo -continua Francioni- ecco due termini, potremmo dire quasi due parolacce che gli storici, gli intellettuali sardi, fatte poche, pochissime eccezioni, hanno sempre cercato di rimuovere, come dire di esorcizzare” .

I danni provenienti dall’abbandono (quello sì vergognoso) della lingua sarda sono tuttora evidenti e diffusi. 

Nonostante  si intravedano alcuni significativi ricuperi, in passato tenuti in piedi da importanti “cantadores” come Antoni Cubeddu di Ozieri e Remundu Piras di Villanova Monteleone, ma l’elenco sarebbe lunghissimo , attraverso le omeriche e struggenti gare di poesia improvvisata  e cantata a lume di luna in pubbliche piazze, ultimamente più frequenti e coraggiosi.

 Attraverso i premi letterari e poetici, diffusisi a macchia d’olio in tantissimi centri dell’Isola,  grazie a quello principale di Ozieri (importante in tal senso l’opera di Nicola Tanda) che hanno visto emergere bravissimi e importanti autori di poesia, saggistica e narrativa in sardo: Pedru Mura di Isili, Antoninu Mura Ena di Bono, Benvenuto Lobina di Villanova Tulo, Giovanni Fiori di Ittiri, anche in questo caso l’elenco sarebbe lungo.

Un ulteriore importante contributo a “sa Limba”  è stato dato e viene ancora dato da autori del passato e del presente che pur non scrivendo in sardo, ma prevalentemente o esclusivamente in italiano, hanno introitato la cultura e l’importanza della lingua materna e comunque l’hanno riflessa nelle loro opere: Grazia Deledda (come emerge dai numerosi saggi di Neria De Giovanni sul nostro unico premio Nobel della letteratura al femminile)  e  Sebastiano Satta (ancora elenco lunghissimo).

Per non parlare dell’apporto diretto alla ripresa d’interesse verso il sardo dovuto alla musica ed alla voce di alcuni grandi interpreti delle melodie e del canto sardo: Maria Carta,  Piero Marras, Andrea Parodi… per evitare ancora un non breve elenco.

  Profetico e ante litteram il nostro Nino quando scrive che il latte/lingua materna arricchirà, aggiungerà, completerà la formazione e la maturazione di chi ne usufruirà. Non sarà mai un elemento sottrattivo, non sarà una “diminutio”, come poi, decenni dopo, verrà autorevolmente confermato. 

E lui stesso si rammarica  per il fatto di non aver imposto il sardo nell’educazione di Edmea o Mea, figlia naturale del fratello Gennaro, socialista esule antifascista in Francia per un certo periodo. Giovinetta e nipote   che lui sceglie come paradigma, nel libretto “L’eduzione di Edmea”, per indicare lo stato di storica e disdicevole condizione della donna: figlia, moglie e casalinga, sempre in soggezione culturale e psicologica rispetto all’uomo padre, marito e capofamiglia: Donna che dovrebbe, proprio attraverso scuola e cultura, affrancarsi per porsi, finalmente, su un piano di pari dignità con il maschio.  Per disarticolare e sconfiggere le catene di costrizioni e obblighi  che  impedisce  all’universo femminile di vivere in parità con l’uomo all’interno della  società del suo  tempo. 

Per Antonio Gramsci la parola sarda ha sempre significato Sardegna, la sua identità, la sua cultura, il suo primario punto di riferimento e di osservazione, lo ripete spesso nelle sue Lettere e Quaderni quando chiede spiegazioni, quando riflette sui legami antropologici fra parola in sardo e il  territorio, le usanze e i valori.

Concetti che, sia chiaro, valgono per tutte le lingue e tutti i popoli e non solo per il sardo.

Ha la piena consapevolezza, e la riporta, che l’apprendimento e l’utilizzo del sardo in bilateralismo e biculturalismo con l’italiano avrebbe contribuito certamente ad una crescita del popolo sardo e ad un migliore più proficuo confronto con gli altri, appianando differenze e conflitti intellettuali e non solo. Avrebbe accresciuto una consapevole ed equilibrata richiesta e difesa di autonomia e democrazia.

Non certo indipendenza, come taluni ancora suggeriscono e propongono. Non indipendenza ma inter-dipendenza, pari-dipendenza e pari dignità di ruoli e di competenze.

Vorrebbe insegnare al figlio Delio che conosce russo e italiano anche la canzonetta in sardo “Lassa sa figu puzone” (lascia il fico uccellino). Ed è significativo  quanto di importante scrive per il folklore, il sapere dei popoli, e per le tradizioni delle feste paesane ove aleggia costume e poesia.  Sogna di rinnovare una volta libero e tornato al paese il “grandissimo pranzo con culurzones e pardulas e zippulas e pippias de zuccuru e figu siccada” .

Dai  Quaderni dal Carcere, 4 [XIII], 55]: “Non si impara il latino e il greco per parlare queste lingue, per fare i camerieri o gli interpreti o che so io. Si imparano per conoscere la civiltà dei due popoli, la cui vita si pone come base della cultura mondiale”.

Ecco sottolineata ancora una volta l’importanza della conservazione e valorizzazione della lingua materna: e se la perdi la devi recuperare con disciplina e metodo e rigore.

Voglio concludere citando sul tema le considerazioni di un altro storico sardo di oggi, Fancesco Casula che sul tema “Gramsci e la lingua sarda ha scritto: “Lo studio e la conoscenza della lingua sarda, può essere uno strumento formidabile per l’apprendimento e l’arricchimento della stessa lingua italiana e di altre lingue, lungi infatti dall’essere “un impaccio“ , “ una sottrazione” , sarà invece un elemento di “addizione”, che favorisce e non disturba l’apprendimento dell’intero universo culturale e lo sviluppo intellettuale e umano complessivo. Ciò grazie anche alla fertilizzazione e contaminazione reciproca che deriva dal confronto sistemico fra codici comunicativi delle lingue e delle culture diverse, perchè il vero bilinguismo è insieme biculturalità, e cioè immersione e partecipazione attiva ai contesti culturali di cui sono portatrici, le due lingue e culture di appartenenza, sarda e italiana per intanto, per poi allargarsi, sempre più inevitabilmente e necessariamente, in una società globalizzata come la nostra, ad altre lingue e culture.
Anche da questo punto di vista il pensiero gramsciano è di una straordinaria attualità. A più riprese infatti nelle sue opere sottolinea l’importanza del Sardo in quanto concrezione storica complessa e autentica, simbolo di una identità etno- antropologica e sociale, espressione diretta di una comunità e di un radicamento nella propria tradizione e nella propria cultura”.

Ti avessimo dato retta, carissimo Nino!

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