SARDEGNA DA SCOPRIRE: SU NURAXI, IL COMPLESSO NURAGICO DI BARUMINI


di Salvatore Barrocu

Ho conosciuto Giovanni Lilliu ad una conferenza.

 Erano gli anni ’80 e la Sardegna, insieme a tutto il resto d’Italia, viveva la sua stagione d’oro, fatta di disco dance, di Milano da bere, di sogni italiani che, presto, sarebbero diventati incubi.

Lo conobbi, dicevo e lo ascoltai attentamente, anche se, neppure un Mostro Sacro come lui, un Mito per quei pochi che si interessavano di Archeologia sarda, riusciva a convincermi del tutto.

Scambiammo poche parole, personali più che professionali, e mi disse di visitare Barumini, Su Nuraxi, per capire meglio le sue parole.

Facile a dirsi e anche a farsi, a Barumini vive un ramo della mia famiglia.

Dunque tornai a visitare quello splendido nuraghe, un’altra volta.

Non mi aiutò a convincermi della bontà delle tesi del Professore, ma era, ed è, una visita epica ad un sito unico.

Oddio, l’unicità, in Sardegna, in campo archeologico, è paradossalmente comune.

Stesso stile architettonico, mille applicazioni diverse, e Su Nuraxi non fa eccezione a questa regola.Allora era tutto libero, come tutti i monumenti sardi. Generosi come siamo sempre stati, non c’erano reti e cooperative a chiudere l’accesso, né biglietti da pagare.

Non c’erano neppure guide a spiegare cosa stessimo vedendo, però.

Un gruppo di soldati tedeschi di base a Decimomannu stavano già esplorando nuraghe e villaggio, come se fossero in un rastrellamento e non in una amena gita culturale. Ma non davano fastidio. Invece mi allontanai subito da un gruppo di turisti romani che andava sparando castronerie a raffica, mentre guardavano le capanne, con ancora i bacili di pietra sui pavimenti.

Tanto esperti erano che non riconobbero le costruzioni romane, pur presenti e visibili, all’inizio del villaggio.

Alla larga, dunque.

Quando visito un sito archeologico, se possibile, preferisco il silenzio, sia esso un nuraghe o un tempio ai bordi del deserto in Alto Egitto.

Le stradine strette formano quasi un labirinto, costeggiando le case rotonde che vanno ad accalcarsi, attorno alle gigantesche mura del nuraghe. Molte capanne, si vede, erano dedicate alla vita comunitaria, al commercio, alla purificazione.

Il primo muro, eptalobato, interrotto da basse torri, separa il nucleo più antico dal villaggio ed è con un po’ di emozione che varco quel confine, immaginando come, in passato, le voci del villaggio, dei commerci, le urla dei venditori, il raglio degli asini, scomparisse appena oltre quel confine concretamente fisico, ma anche mentalmente dirimente, dedicato alla sacralità del luogo.

Però come una collina gigantesca, costruita dall’uomo, si erge già la struttura centrale del monumento.

Do uno sguardo alle costruzioni quadrangolari addossate internamente alla muraglia distrattamente, temo, ma la curiosità mi spinge all’interno, verso la bocca oscura dell’ingresso a quella collina di pietra.

Il cortile centrale lascia entrare la luce del giorno, col sole che comincia a colorare le pietre superiori di quel grande pozzo.

Si affacciano su di esso finestre di pietra e porte che sbucano dalle pareti, una che appare dal nulla, sospesa nel vuoto.

Certo, in antico c’era di sicuro un ballatoio di legno, ad impedire cadute accidentali.

Oggi non c’è nulla, prudenza dunque.

Entro nel buio fresco della torre centrale, la più antica, e ritrovo l’atmosfera consueta, lo stato d’animo che mi avvolge sempre, quando entro in uno di questi monumenti, un misto di stupita ammirazione e una punta dell’antica religiosità, o superstizione, dei miei avi.

Salgo, tramite una opportuna scala di legno costruita per la bisogna, ai piani superiori, ai corridoi oscuri che collegano i quattro nuraghi alla vetta di quel monte artificiale.

I passaggi sono bui e la trappola della porta aperta sul nulla viene vanificata dal sole, che ne illumina un pezzo di questi corridoi, oltre alla cornice rettangolare dell’apertura.

Salgo fino in cima, e mi pare di aver conquistato l’Everest.

Si vede il Mondo, da lassù ma sopratutto si vede il villaggio, le sue stradine strette, le piazzette piccole, strette tra possenti capanne di pietra, che si diradano verso la periferia, da una parte. Dall’altra, invece, oltre le mura, quasi nulla, solo la verde campagna, con un gregge di pecore che pascola, guardata da vicino da un cane nero come la notte.

Più lontano, seduto su una roccia, un pastore sembra più sorvegliare noi e non il suo gregge.

Respiro l’aria fresca della primavera che ci circonda, alzo il braccio, abbozzando un saluto verso il solitario pastore, e scendo.

Oubliette Magazine 

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