Nel 2016 il turismo ha rappresentato il 7% del PIL della Sardegna. Quest’anno con un aumento del 10% di visitatori nel solo mese di luglio, rispetto all’anno passato, sarà ancor più elevato. Manuel Castell in un articolo su Internazionale, scrive che in Spagna il turismo rappresenta l’11% del prodotto interno lordo e in regioni come la Catalogna, specialmente Barcellona, e le Baleari sta provocando problemi che la crescita economica non riesce a contrastare. Articolo che dovrebbe indurre alla cautela chi propone quelle esperienze come ispirazione per il turismo sardo.
È dalla caduta del modello industriale che il turismo agli occhi dei decisori sardi ma anche del sentire comune, appare come la chiave di volta della nostra modernità. Cagliari sta modificando sé stessa in funzione dei viaggiatori low cost, ma anche Bidda Fraigada vorrebbe la sua quota di visitatori paganti. Desiderio legittimo, per carità! La ragion turistica è diventata alfa ed omega di ogni desiderio di crescita economica, e ad essa ogni altra attività deve essere funzionale. Lo stesso DDL Urbanistica, secondo i proponenti, ha nel turismo una delle ragioni fondanti.
Nel Salone del Libro di Torino del 2012 la Sardegna era presente con un proprio stand affiancato a quello della Regione Marche. Mentre il nostro era foderato di immagini che riportavano scorci marittimi e torri di Filippo II, quello della regione adriatica era cinto da una gigantografia della biblioteca di Giacomo Leopardi. Un visione rivelatrice di come il turismo abbia colonizzato il nostro immaginario. Gli stand delle fiere dell’agro-alimentare spesso non sono diverse. Il meta messaggio è che i formaggi, vini e i libri sono accessori per il turismo.
Chi fa marketing territoriale dovrebbe rifletterci più volte. Domenica 20 agosto, a Nuoro, si è svolto un corteo di maschere tradizionali del carnevale isolano. L’impressione che se ne riportava era quella di uno straniamento già al primo sguardo. Vedere uomini che sfilavano con il passo triadico, coperti di pelli, gabbani di orbace, maschere lignee, apparati di sonagli – quaranta chili, quelli dei Mamuthones– nei 30 gradi della sera nuorese, dava la misura del falso a cui ci stiamo assoggettando con slanci volenterosi. La tradizione è reinvenzione, sostengono gli antropologi.
Ogni generazione è in fin dei conti fedele a sé stessa e non ai propri padri. Tutto viene riletto con il filtro dell’attualità, con buona pace dei sacerdoti delle identità immutabili, dei valori bloccati. Ci raccontiamo come rurali, ma in realtà siamo di solida cultura urbana. Lo smartphone è anche nella tasca dei 35 resistenti di Lollove. Non esiste più nessuno che non sia toccato dalla globalizzazione, che non abbia modelli di riferimento che confliggono con quelli che ci raccontiamo come identitari.
Il carnevale e le sue maschere sono la metafora perfetta degli equilibri saltati. Raffaello Marchi, in uno studio degli anni ’50 del secolo scorso scriveva che i Mamuthones di Mamoiada uscivano solo tre volte l’anno: a settembre per la festa di San Cosimo, il 17 di gennaio per Sant’Antonio e la domenica e il martedì di carnevale. La loro comparsa era rito sacro, nel senso di separato dall’attività ordinaria. Nelle società contadine la festa era collettiva, tutti, proprio tutti, lasciavano la propria occupazione.
Quell’ordinamento del tempo si è rotto negli anni ’70, con la modernità che ha fatto saltare l’organizzazione contadina, festa e giornata ordinaria non sono più separate, alcuni lavorano mentre altri festeggiano. Nel decennio seguente- a mia memoria- i Mamuthones, i Boes e Merdules di Ottana, i Thurpos di Orotelli, hanno iniziato a frequentare feste e sagre fuori dai propri paesi.
E quelle manifestazioni decontestualizzate diventano riti del cargo, hanno perso le ragioni antiche, si ripetono senza essere comprese. La loro iterazione nei contesti più diversi alimentava il mito di una Sardegna arcaica, resistente ed incontaminata. Questo ha portato decine di altri paesi a riscoprire, maschere simili di cui, nel migliore dei casi, si avevano tracce labili nella memoria degli anziani o cenni in alcuni documenti.
Solo quello però, per cui molti, anche in buona fede, sono ricorsi alla reinvenzione, con il risultato di gruppi fotocopia che finiscono con il banalizzare il tutto. Vince chi ha più corna, ossa e pelli di animali da mostrare. Una mcdonaldizzazione dei carnevali, a cui corrisponde quella di molti agriturismi e villaggi turistici con menù ispirati ad un mitico ma inesistente pranzo sardo. Un atteggiamento che diventa schizofrenico, come la proibizione per i figuranti dei gruppi folk di esibire tatuaggi, costringendo quelle comparse in testimoni di altro tempo, trasformando l’abito tradizionale in costume, buono per la recita.
Molti di questi comportamenti sono ispirati da quel che si immagina sia lo sguardo straniero, del corrispondere al modello che noi abbiamo in testa del turista: uno che cercherebbe in noi le tracce di un passato che lui ha perso. In realtà i primi ad averlo perso siamo noi, diventati riserva di navajos di noi stessi. Evitare i carnevali estivi quindi? Se fosse possibile sì, ma ormai i buoi sono scappati e ha poco senso chiudere la porta della stalla. Se vi è un insegnamento da trarre è che siamo cambiati, la reinvenzione ha creato un’altra tradizione, viviamo nel autentico falso che ci rivendiamo ai visitatori.
Però tutto il turismo mondiale, eccetto una sparuta minoranza di viaggiatori, vive dentro un grande equivoco, vede, mangia, dorme dentro il falso. È il degno di essere visto che è stato definito come vero. Chi l’ha stabilito? La guida cartacea, il sito informatico, le APP, Trip Advisor, una campagna pubblicitaria efficace. Basta esserne consapevoli, e smetterla di lamentarsi per l’identità tradita. Stiamo costruendo altre identità né migliori né peggiori di quelle dei nostri predecessori, anche se poi rifiutiamo quella ci può caratterizzare come unici: la lingua sarda. Ma questa è un’altra storia.
http://www.sardegnasoprattutto.com/
Mercificazione delle tradizioni rivisitate ad uso e consumo delle sagre paesane e del turismo!
Beh! Letto questo articolo, direi che lasciando le usanze alla giusta tempistica si canalizzerebbe il turismo in diversi ambiti e stagioni e ne gioverebbero gli operatori, più veritieri e coerenti con “la notte dei tempi” e i turisti che sarebbero redistribuiti nel territorio