Dal villaggio (Benetutti) alla nazione – la costituzione della borghesia (in particolare la famiglia di Francesco Cocco Ortu, 1842-1929) in Sardegna (AM&D Edizioni, anno 2011, pag 316) è un saggio di Giampaolo Salice. In questo libro l’autore percorre le strade che, grazie ad abili intrecci matrimoniali che generano un considerevole incremento patrimoniale, portano alcune famiglie dell’interno a costruire la nuova élite borghese che avrà un ruolo fondamentale nella storia della nostra isola.
Da Benetutti a Roma, che strade hanno percorso le famiglie paterne e materne di Francesco Cocco Ortu per costruire la loro fortuna? Di quali armi si sono avvalse? Il progetto di grandezza di una famiglia è un fatto storico multigenerazionale e policentrico, al quale partecipano donne e uomini, analfabeti e laureati, genti di montagna e di pianura, cognomi di campagna e altri di città. Una mescola di destini e prospettive che in Sardegna è maturata all’ombra delle istituzioni feudali e dentro gli uffici periferici dell’amministrazione regia, nelle giunte locali dei monti di soccorso e nelle parrocchie. Il centro fondamentale del potere è sempre il possesso stabile ed esclusivo della terra. Ma le élite sono tali anche perché sono capaci di congelare i fundamentus dei villaggi, ad esempio difendendo strenuamente le forme collettive di gestione della terra e impedendo le chiusure. Insomma, si chiude o si tiene aperto a seconda delle convenienze dei due o tre cognomi che dominano in paese. Dal villaggio alla nazione è nato dal tentativo di ricostruire questi percorsi adottando una famiglia come caso di studio per spiegare l’ascensione sociale di una intera nuova élite. Un gruppo sociale che per tutta l’età moderna resta in ombra, perché esclusa dalla gestione del potere politico e con possibilità estremamente limitate di interlocuzione diretta col sovrano. E perché arriva tardi, a volte tardissimo, all’alfabetizzazione. Fattori che non impediscono alle élite rurali di accumulare terre, siglare matrimoni strategici, gestire in prima persona le risorse fondiarie del proprio villaggio. Tutte azioni che costruiscono consapevolezza, aumentano gli orizzonti psicologici delle famiglie e la loro fame di prestigio. Col tempo la scalata si fa sempre più ripida. Per crescere ancora e arrivare in alto, dove si decide davvero, ci si mette contro il foro baronale e i suoi ministri, si mandano i figli all’università e questi diventano notai, avvocati, medici, intellettuali. Nel Settecento, l’avvento dell’assolutismo sabaudo apre nuovi spazi di protagonismo. Mentre in campagna i patriarchi delle famiglie più potenti si ergono a domini dei rispettivi villaggi, in città i loro figli si danno alle libere professioni. Nella prima metà dell’Ottocento, il patrimonio accumulato nei secoli da queste famiglie diventa la carta fondamentale da giocare dentro uno Stato che ha assunto forme costituzionali e che ha scelto il ceto possidente, non importa se nobile o no, quale sua base sociale di riferimento. È in quel momento che le élite campagnole arrivano a rappresentare direttamente i propri interessi ai massimi livelli istituzionali. Senza più dover passare per l’intermediazione interessata dei loro antichi signori feudali, l’emergente borghesia ha assunto l’onere di rappresentare l’antico regno di Sardegna. È quello che farà il ministro Cocco Ortu nei suoi 50 anni di vita parlamentare e da ministro dell’agricoltura e grazia e giustizia.
Il tuo approccio storico e’, ovviamente, molto lontano dall’ideale romantico. Per essere chiari, anche la storia di Sardegna ha vissuto in suo personale New Ghotic. L’Inghilterra ha avuto Walter Scott, l’Italia Manzoni, noi i nostri bei falsi delle carte d’Arborea. Pensi che sia stato un rifugiarsi nel passato idealizzato per fuggire un presente assente? Al contrario, le falsificazioni sono state il gioco colto di un pugno di intellettuali molto presente a se stesso e al suo tempo. Una élite capace di sfruttare le ansie di un mondo che cambiava rapidamente, lasciandosi alle spalle l’antico regime e trovando nella nazione lo strumento per sfidare il futuro. Va detto però che le nazioni nell’Ottocento erano creature ancora molto giovani, con un profondo senso di inferiorità psicologica nei confronti delle istituzioni millenarie che ne impedivano l’affermazione. Ovunque in Europa fioriscono allora le falsificazioni che celebrano l’antichità delle Nazioni, le ammantano di gloria, attribuendo loro un destino luminoso, legittimato persino dalla divinità. I falsi inventano il passato e lo trasformano in un’arma politica a servizio del presente; svelano il “vero” popolo, gli danno un’identità concreta e un nemico da sconfiggere attraverso la potenza purificatrice della guerra; chiamano in causa gli elementi distintivi della nazione: la sua lingua, le sue tradizioni, il suo carattere, ma anche la purezza, il sangue, la razza. Le nazioni sono per questo geneticamente bellicose, intolleranti, razziste. I falsi d’Arborea sono figli legittimi di questa temperie europea. Nascono dal bisogno di dare ai sardi una storia e un’identità proprie. Perché i sardi, esattamente come gli altri popoli europei, si sentono schiacciati da un passato che sembra negare loro soggettività storica. In controluce i falsi ci mostrano come nell’isola fosse presente una élite intellettuale colta e raffinata, non solo perfettamente connessa coi principali centri di elaborazione culturale del tempo, ma anche capace di farsi essa stessa centro di invenzione della nazione.
Di questa storiografia romantica molto idealizzata e poco fondata salveresti qualcosa o, secondo te, è da rinnegare in toto? Gli storici dell’Ottocento hanno scritto pagine che ancora oggi hanno un impatto impressionante sulle nostre scelte individuali e collettive, sulla legislazione e sulle politiche culturali e sociali, adottate a livello locale e globale. Hanno tracciato le coordinate fondamentali dei nostri immaginari globali, che pervadono tutto il nostro discorso: dalla letteratura al cinema, alla musica, alla politica. Quella storiografia così influente non andrebbe rinnegata, ma studiata e messa alla prova. È una delle sfide più appassionanti per gli storici di oggi.
La storiografia si e’ evoluta, gli storici hanno preso diverse strade. Una di queste sembrerebbe vicina a quella dell’autonomismo radicale. Questo ramo storiografico tende a leggere la storia di Sardegna in chiave ristrettamente identitaria ponendo l’accento sulle diversità per dimostrarne una notevole e quasi assoluta specificità. L’altra corrente potremmo denominarla ”integralista” e pone la sue indagine, più che sulla specificità, sulle affinità che ci accomunano ad altre realtà più o meno vicine alle nostre. Abbiamo un escursus storico che ci accomuna ad altri popoli e ad altre società. A quale corrente appartiene la tua ricerca? Non ho mai amato le etichette, mi sembrano vestiti troppo stretti. Invece, mi sono sempre fidato prevalentemente delle fonti. E le fonti, tutte quelle disponibili e studiabili, svelano che la Sardegna, intesa sia come luogo comune che come esperienza storica concreta, è il frutto di una dinamica che non fu mai separata e distinta, ma sempre multicentrica e multilivellare, globale e locale ad un tempo. Ogni oggetto, materiale e immateriale, rinvenuto in Sardegna è il frutto di un sistema relazionale straordinariamente complesso, che non abbiamo ancora decifrato completamente. Faccio solo un esempio: la nascita di un piccolo villaggio nella Sardegna del Seicento può apparire un fatto periferico e insignificante. Ma quando si prova a ricostruire la storia di quella fondazione si scopre che essa è il frutto di spinte, urgenze e desideri che abbracciano un orizzonte incredibilmente più vasto di quello che è diventato il territorio del villaggio. L’orizzonte è quello tracciato dalle politiche di potenza della più grande monarchia del tempo, quella degli Asburgo di Spagna, a capo di un sistema imperiale globale sul quale il sole non tramontava mai.
Se consultiamo i testi scolastici possiamo dire con una certa obiettività che siamo un popolo senza storia. È vero? Di chi la colpa? I testi scolastici sono concepiti come strumento statale di costruzione della cittadinanza e di diffusione a livello popolare del sentimento nazionale. Il loro obiettivo è inculcare la storia della Nazione Italiana che si fa Stato e che opera nei secoli come soggetto storico. La nostra costituzione non ammette l’esistenza di altre nazioni sul suolo italiano. Dunque non ci può essere spazio per una storia sarda nei libri di testo italiani. Hanno cittadinanza solo i segmenti di storia degli antichi stati italiani che possono essere letti come episodi del più ampio percorso di affermazione degli italiani come popolo unito e indipendente nel loro stato nazionale. Aggiungo: non le continue lamentele che si leggono sui social network a tal proposito, ma solo una riforma in senso federalistico della Costituzione italiana potrebbe cambiare le cose, anche sotto questo profilo.
Tra i tuoi scritti più originali citerei il tuo ultimo libro “Colonizzazione sabauda e diaspora greca” e i tuoi ultimi articoli sul ripopolamento della Sardegna ottenuto con popolazione straniera. Perché lo straniero ideale per gli spagnoli e’ diverso dallo straniero dei piemontesi? Nel Settecento, i Savoia adottano la stessa politica delle altre monarchie europee: cercano di riempire i propri territori abbandonati con coloni forestieri. Carlo Emanuele III, come Federico II di Prussia, Pietro e Caterina di Russia, Giorgio di Gran Bretagna e Carlo III di Spagna vogliono stranieri perché solo così credono di potere aumentare il numero dei loro sudditi. Li vogliono stranieri, ma anche mercanti, agricoltori provetti, artigiani, così che le terre loro assegnate possano conoscere sviluppo agricolo, manifatturiero e commerciale. Poco importa, a questi sovrani del Settecento, che i coloni professino un fede diversa dalla propria. In età così detta spagnola il colono ideale deve invece essere un cattolico, perché non si poteva essere sudditi spagnoli senza essere autenticamente e razzialmente cattolici. C’è però una precisazione importante. Mentre le colonizzazioni d’età sabauda sono quasi tutte di iniziativa statale, quelle d’età spagnola sono promosse in larga misura dai feudatari. Questi gareggiavano tra loro per accaparrarsi il maggior numero di coloni. E quando questi lasciavano il paese di nascita per approdare in un altro feudo da popolare venivano visti come strangius, cioè stranieri, in un senso che però è diverso da quello attuale. Il concetto contemporaneo di straniero è legato all’idea di nazione, una nazione che non esisteva ancora nella Sardegna spagnola. In antico regime la “patria” era il paese di nascita e ‘stranieri’ erano tutti coloro che appartenevano ad un villaggio diverso dal proprio.
Da storico chiaroveggente, con un notevole sforzo di immaginazione, come pensi si evolverà questa convivenza oramai domestica con africani, asiatici, europei dell’est. Potrebbero loro contribuire a sanare la piaga atavica dello spopolamento? La storia non insegna nulla, né aiuta a prevedere il futuro, però offre qualche utile spunto di riflessione. La Spagna imperiale degli Asburgo si è impoverita moltissimo quando per ragioni ideologiche ha espulso dai suoi territori ebrei e moriscos. La Turchia Ottomana ha cercato in ogni modo di impedire che i suoi sudditi ortodossi si disperdessero in diaspora e offrissero la propria perizia marinaresca e commerciale ai concorrenti inglesi, veneziani e russi. L’Olanda, grazie ai forestieri esuli, ha costruito un impero commerciale e una delle civiltà finanziarie e artistiche tra le più influenti a livello planetario. Ancora oggi, il paese che tiene le sorti del mondo è un popolo di migranti e di esuli, gli Stati Uniti d’America. Per tutta l’età moderna gli Stati italiani hanno cercato di attrarre esuli per ripopolare le terre spopolate e bonificare quelle malariche. Così han fatto il Granducato di Toscana, la Repubblica di Genova, persino lo Stato della Chiesa. Allora come oggi, l’arrivo dei migranti ha creato tensioni e scontri, ma ha avuto un impatto gigantesco sulla storia della civiltà globale. Senza la diaspora dei greci arrivati dall’impero Ottomano il Rinascimento italiano non sarebbe stato quello che è. Non è vero che la storia si ripete e che è ciclica e non siamo in grado di dire come le cose si sistemeranno. Ma studiare i grandi e piccoli movimenti di popolazione aiuta a guardare con maggiore fiducia e meno paura al sommovimento insediativo che stiamo osservando in questi anni.
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