di Carlo Figari *
Nei documenti risultano dispersi nei campi di concentramento nazisti sparsi tra Germania, Austria e Polonia. Decine di migliaia di prigionieri furono sepolti nelle fosse comuni o nella nuda terra dei lager. Nell’immediato dopoguerra, a causa delle enormi difficoltà di comunicazione e di ricerca, non fu possibile conoscerne la sorte e informare i familiari. Quei caduti fanno parte della massa dei 750-800 mila militari e civili fatti prigionieri dai nazisti dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, rinchiusi dentro i vagoni piombati e trasportati nei lager. L’Unione Sarda ha pubblicato i nomi di 45 sardi scomparsi di cui ora si sa perlomeno dove siano morti e dove presumibilmente si trovino le tombe. Trentanove venivano dalla provincia di Cagliari e sei dall’attuale Sulcis. I nomi sono emersi da un elenco di 15.292 che figura nel blog “Dimenticati di Stato (all’indirizzo www.robertozamboni.com). È il primo passo di una ricerca iniziata dieci anni fa da un artigiano veronese che vuole rintracciare il maggior numero dei deportati che figurano tra i dispersi. Un’impresa ciclopica per Roberto Zamboni (titolare di un piccolo calzificio nel Veneto), ma lui – storico per passione – ci crede e va avanti nell’indagine lager per lager: «Negli elenchi dei dispersi forniti dal ministero della Difesa sono arrivato alla lettera C, con la provincia di Cagliari», dice. Perché questa ricerca? «Qualcuno doveva pur farla, visto che lo Stato non se n’è mai occupato. Ci vorrà ancora qualche anno, ma continuerò sino alla fine degli elenchi». La ricerca dell’artigiano veronese proietta nuova luce su una vicenda come quella della deportazione in Germania nell’ultima guerra, ancor meno conosciuta in Sardegna che nel resto d’Italia. Lo storico cagliaritano Aldo Borghesi da anni dedica buona parte dei suoi studi al tema della deportazione. A lui la Mursia ha affidato il saggio che riguarda i prigionieri “politici” sardi per il secondo volume dell’opera “Il libro dei deportati 1943-1945”. «Il meritorio lavoro di Zamboni» rileva lo studioso «ha fruttato 45 nomi per il territorio della allora provincia di Cagliari. Si può ragionevolmente ipotizzare che almeno altrettanti ne risulteranno per le province di Nuoro e Sassari. Più o meno 150 nomi sono un contributo importante per la conoscenza della tragedia dell’internamento militare dei sardi, sul quale non esiste un’analisi sistematica e si dispone finora solo di contributi autobiografici o dedicati a singole figure». Borghesi sottolinea che «l’argomento in Sardegna, più che altrove, non ha suscitato l’interesse della storiografia accademica, ma che è ancora fortemente radicato nella memoria dei reduci, delle famiglie e delle comunità da cui provenivano questi ragazzi». «Perché – aggiunge – per lo più ragazzi erano, come tutti i soldati di allora e di oggi, partiti in divisa e mai più tornati. Non bisogna mai dimenticare che dietro ciascuno di quei 45 nomi c’è una storia di questo genere, dal finale tragico». Chi erano i 45 deportati dispersi e di cui ora si conosce almeno il luogo di morte? «I nominativi compresi nell’elenco – risponde Borghesi – sembrano in massima parte di IMI (Internati Militari Italiani): solo quattro compaiono nell’elenco di 23 mila nomi della deportazione politica italiana pubblicato nel “Libro dei deportati”, curato dai docenti universitari torinesi Brunello Mantelli e Nicola Tranfaglia». Tre di essi – aggiunge – sono morti dopo la liberazione dei campi in cui si trovavano (Dachau e Mauthausen), come purtroppo avvenne a molti deportati giunti alla fine della guerra allo stremo delle forze. Si tratta di Salvatore Cogoni (nato a Monserrato nel 1897), Luigi Pibiri (Pirri, 1915) e Giovanni Piras (Iglesias, 1895). Questo, probabilmente, è il motivo per cui ebbero sepoltura in un cimitero; mentre in genere i morti venivano bruciati nei forni crematori. Silvio Marcia (nato a Dolianova nel 1921) invece è uno dei quattro sardi morti ad Hartheim, sottocampo di Mauthausen dove venivano praticati esperimenti medici su cavie umane. Lo studioso ricorda come il sistema concentrazionario tedesco durante la seconda guerra mondiale fosse articolato in settori diversi: esistevano campi direttamente gestiti dal partito nazista, ovvero dalle SS, i cosiddetti Konzentrationslager (abbreviati in KL o KZ). Scopo di questi campi era essenzialmente un terrorismo di Stato politico e sociale, attraverso la concentrazione e l’eliminazione degli elementi ritenuti nocivi o pericolosi per il Nuovo ordine nazista. Molti deportati, inoltre, venivano utilizzati come massa di forza lavoro a bassissimo costo. «In altri campi – riprende Borghesi – vennero rinchiusi i militari appartenenti alle Forze armate italiane, presi dai tedeschi dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Ad essi non fu riconosciuto lo status di prigionieri di guerra, che avrebbe comportato il rispetto delle norme stabilite dalla Convenzione di Ginevra circa le condizioni di trattamento e soprattutto le limitazioni di impiego nel lavoro». Vennero dichiarati Internati Militari Italiani (IMI) e trattenuti in campi distinti per truppa e ufficiali (rispettivamente Stalag e Oflag). Quelli che sopravvissero al freddo e alla fame nell’inverno, quelli che non aderirono alla Repubblica Sociale (e furono la stragrande maggioranza) vennero comunque avviati dall’estate 1944 al lavoro obbligato nelle fabbriche e nei campi o allo sgombero di macerie nelle città bombardate. Nei KZ finirono, fra militari e civili, circa 40 mila italiani. Per gli IMI si parla di una cifra fra 700 e 750 mila uomini. I sardi in KZ furono fra 250 e 300, per gli IMI si ipotizza una cifra fra 10 e 12 mila.
* Unione Sarda