di Ignazio Caruso
A metà novembre, il Ministero dei Beni e della Attività Culturali e del Turismo effettuerà la prima scrematura sull’elenco delle 21 città italiane candidate ad essere “Capitale Italiana della Cultura 2018”. A giocarsi il contributo di un milione di euro messo in palio dal Governo ci sarà anche Alghero, che dovrà vedersela con l’agguerrita concorrenza di altri comuni italiani come, ad esempio, Ercolano, Recanati e Trento.
«La città ha tutte le carte in regola per farsi trovare pronta alla sfida del 2018 – aveva detto lo scorso agosto l’assessore alla Cultura e Turismo di Alghero, Gabriella Esposito –. Il progetto presentato racchiude ciò che di più autentico e unico contraddistingue la città di Alghero: il legame tra lingua, storia e cultura».
I politici, si sa, sono ottimisti per natura, ma questa volta l’assessore ha detto una cosa giusta: Alghero ha tutte le carte in regola per essere una capitale culturale. Il problema è che queste carte sono coperte, rivolte solo verso chi le tiene in mano. E questa è una cosa positiva se stai giocando a poker, un po’ meno se ambisci a diventare Capitale Italiana della Cultura 2018. Gli algheresi sono consapevoli della potenzialità della loro città, ma non hanno ancora calato il tris. E se negli altri angoli del tavolo siedono città come, appunto, Ercolano, Recanati e Trento, tutte città con identità e immagine precise, può essere un grosso problema. Ma questo articolo non è sponsorizzato da qualche multinazionale del gioco d’azzardo – purtroppo – quindi andiamo oltre.
Alghero deve decidere cosa vuole fare da grande. La recente fuga di Ryanair costringe tutta la città, non solo chi la amministra, a un esame di coscienza che deve portare, per forza di cose, a un miglioramento della propria capacità attrattiva. Come già detto da Claudio Simbula in un recente post pubblicato su un noto blog di fama internazionale, Alghero dovrebbe svegliarsi e cominciare a lavorare su sé stessa. La crisi, come spesso dicono i politici – solito discorso: ottimisti per natura – può portare con sé grosse opportunità. E noi, per la seconda volta in pochi minuti, vogliamo credergli. Ma siccome questo post non è sponsorizzato da nessun partito o movimento politico – per fortuna – andiamo oltre.
Per capire cosa non va nella politica culturale cittadina – c’è sempre qualcosa che non va –, ma non solo, per capire cosa potrebbe fare concretamente Alghero per ambire a crescere ed essere una candidata credibile, ci siamo chiesti: cosa è la cultura? O meglio: cosa non è?
CULTURA NON È (SOLO) TURISMO
Spesso si parla di cultura, e di impresa culturale, unicamente da un punto di vista turistico. Gli eventi e la promozione culturale vengono visti come un modo di attirare in città visitatori, di destagionalizzare il mercato, di contribuire dello sviluppo economico delle attività locali. Tutto questo è giusto e, anzi, l’aumento della qualità delle offerta deve ragionare anche in questo senso. Lavorando solo in questa direzione, però, si finisce per dimenticare quelle persone che, nella loro vita, hanno fatto una scelta coraggiosa, eroica, direi anche folle: restare ad Alghero. L’attività culturale di un luogo dovrebbe avere come primo scopo quello dell’educazione, della crescita e, perché no, anche dell’intrattenimento di chi in quel luogo vive 365 giorni all’anno. Perché l’estate passa in fretta, ma l’inverno ad Alghero può essere lungo, molto lungo. Un’era glaciale. E sappiamo tutti com’è andata a finire.
CULTURA NON È (SOLO) PESANTEZZA
La cultura non è solo una visita al museo. Non è solo la presentazione di un libro. Non è solo la conferenza sulla ceramica fenicio-punica in Sardegna. La cultura può e deve essere anche divertimento. Proiezioni di film in spiaggia, festival con musica di qualità, reading letterari, performance teatrali urbane, street art e quant’altro possono fare di una città, grande o piccola che sia, un epicentro culturale capace di attirare a sé energie creative e di produrne essa stessa. Alghero non deve aver paura di osare.
CULTURA NON È (SOLO) VOLONTARIATO
Non c’è niente di male a pagare un biglietto. Non c’è niente di male a vivere di e grazie alla cultura. Anzi. Professionalità significa preparazione, studio, consapevolezza, tutti aspetti necessari per raggiungere un certo livello di qualità. Chi affiderebbe la costruzione della propria abitazione a un appassionato di modellismo? Chi affiderebbe l’istruzione del proprio figlio a uno che non perde una puntata di Super Quark? Chi si farebbe operare da uno con l’hobby della chirurgia? Se al bisogno di fare inclusione sociale e promozione culturale rispondiamo con dei corsi pomeridiani di sciamanesimo, allora stiamo sbagliando qualcosa. La qualità si paga. Sempre. In più, è necessario che coloro i quali devono scegliere cosa fare e cosa non fare – cosa finanziare e cosa non finanziare – siano in grado di farlo. E lo facciano, anche a costo di scontentare qualche elettore.
CULTURA NON È (SOLO) IDENTITÀ
Alghero è una città sarda, catalana, italiana, europea. Alghero è una città di mare che ha visto passare popoli e culture tra le più diverse. Alghero, per la sua predisposizione naturale, ha il dovere di guardare lontano. Ma raramente lo fa. Se si vuole parlare di cultura, allora è necessario allargare i propri orizzonti, andare oltre Capo Caccia e capire che là fuori c’è un mondo che può vivere anche senza la nostra amata ridente cittadina catalana. «Il provincialismo – diceva Ezra Pound – è qualcosa di più dell’ignoranza» e ad Alghero, come in tutte le piccole città, troviamo spesso atteggiamenti simili. È giusto valorizzare i talenti – o presunti tali – locali, è giusto favorire e lanciare le iniziative dei giovani – non si fa mai abbastanza –, ma attenzione a non rimanere chiusi in una campana di vetro. La contaminazione dall’esterno, specie se di alto livello, può portare solo a un miglioramento. C’è ancora chi pensa che Alghero sia il centro del mondo, quando lo sanno tutti che oggi Berlino è la nuova Londra che era la nuova New York che era la nuova Parigi che era la Nuova Sardegna.
CULTURA NON È (SOLO) VECCHIAIA
Un volume troppo alto, un colore troppo sgargiante, un racconto pieno di parolacce: queste sono cose che non uccidono. Sapete cosa uccide, invece? La vecchiaia. Ma non la vecchiaia anagrafica: la vecchiaia mentale. Gli algheresi hanno guardato talmente tanto il gigante dormiente di Capo Caccia che hanno finito per anestetizzarsi placidamente in un coma culturale profondo ormai da anni. La città è in ostaggio dei vecchi. I giovani scappano. La realtà è questa. Le novità non sono ben viste. Secondo Picasso «ogni atto di creazione è innanzitutto un atto di distruzione», ma di processi distruttivi, nel senso di creativi, ad Alghero non se ne sono mai visti. Tutto è finalizzato alla conservazione.
MA COSA È LA CULTURA?
Nella notte tra il 15 ed il 16 agosto del 1943, il Teatro alla Scala di Milano subì un devastante bombardamento della RAF, che causò gravi danni alla struttura: il palcoscenico e le strutture di servizio andarono completamente distrutti. Finita la guerra, uno dei primi provvedimenti dell’assessore alla cultura Achille Magni e del sindaco Antonio Greppi fu la decisione di ricostruire il teatro «com’era e dov’era». L’11 maggio del 1946, Arturo Toscanini diresse il concerto inaugurale. All’interno del teatro erano presenti 3mila persone, ma quella sera il Maestro non diresse solo per chi aveva potuto pagarsi un biglietto: diresse anche per tutta la folla che occupava in quel momento le piazze vicine, davanti agli altoparlanti montati ad hoc fino a Piazza del Duomo. Quella sera alla Scala andarono in scena l’ouverture de La gazza ladra, il coro dell’Imeneo, il Pas de six e la Marcia dei Soldati del Guglielmo Tell, la preghiera del Mosè in Egitto, l’ouverture e il coro degli ebrei del Nabucco, l’ouverture de I vespri siciliani e il Te Deum di Verdi, l’intermezzo e estratti dall’atto III di Manon Lescaut, il prologo ed alcune arie del Mefistofele.
Io queste cose le ho cercate su Wikipedia, ma quella sera le sentirono politici, nobili, imprenditori, impiegati, operai, contadini, barboni, analfabeti. Le sentirono tutti, anche i sordi. Perché la guerra era finita. Perché questa è la cultura.
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