di Claudia Pilia
Ilario Carta, 58 anni nato a Ballao, vive attualmente a Iglesias. Impiegato alla Regione dal 1983, lavora come funzionario responsabile di settore nell’ambito delle politiche sociali. Tra un trasferimento e l’altro e tra le mille vicissitudini nelle quali si è imbattuto nella sua vita, ha trovato il tempo di dedicarsi a una delle sue più grandi passioni: la scrittura. Una scrittura che è racconto di vita vissuta, ma anche fuga verso storie vissute da altri. E’ catarsi, è confessione, ma è anche ritmo, cura talvolta ossessiva dei dettagli, musicalità, leggerezza alle volte, pesantezza altre. E’ scrittura razionale. Ma è soprattutto, come lui stesso ama definirla: scrittura di cuore.
Che ruolo ha la scrittura nella sua vita? Direi che ha un ruolo fondamentale. Ogni minuto libero che mi lascia la famiglia e il lavoro lo dedico alla scrittura e alla lettura. Ho scritto parecchio in questi ultimi dieci anni dedicando alla stesura dei miei romanzi inediti una cura maniacale. In genere non sono per niente pibinco, precisino, ma i romanzi che scrivo li rileggo per cento volte sino a quando lo scorrere delle parole non diventa quasi un suono musicale. So che lo leggeranno gli altri e voglio che non incontrino nessun intoppo. Ecco perché passano anni dalla prima stesura alla pubblicazione, perché la ricerca da parte mia del verbo giusto e dell’aggettivo giusto a volte sfiora l’ossessione.
I giardini di Leverkusen non è il suo primo romanzo. Quanti altri lavori sono ancora rinchiusi nel suo cassetto? Non è il mio primo romanzo, ma è il primo che è stato pubblicato. Ho avuto tantissimi consensi per questo lavoro ma so di aver scritto cose più importanti. I giardini di Leverkusen è un romanzo “mignotto” che si presta bene per un’opera prima, è accattivante, coinvolgente, tocca tanti temi comuni a tutti i lettori, come il rapporto padre-figlio, il tema dell’emigrazione, del razzismo, del caos adolescenziale, l’evoluzione formativa. Gli altri romanzi che ho nel cassetto penso abbiano una maggiore valenza letteraria, intesa come capacità di imbastire un plot, una storia universale, la capacità di scansionare i tempi, l’approfondimento psicologico dei personaggi, la giusta esposizione delle atmosfere. I giardini di Leverkusen è l’unico che ho presentato a un concorso letterario, il premio Fante. La mia casa Editrice, Arkadia di Cagliari, mi ha subito accontentato partecipando al festival. Avevo grandi speranze visti lo stile del romanzo e il riferimento a Fante, avallati peraltro da tanti pronostici favorevoli degli addetti ai lavori, però poi non sono stato premiato. Mi fa un immenso piacere che il premio sia rimasto a Jerzu e lo abbia vinto Marcello Locci, penso proprio che lo meritasse ampiamente.
Quanto di Ilario e delle sue esperienze di vita c’è al suo interno? Il libro racconta l’esperienza lavorativa fatta in Germania da un ragazzo sardo di quindici anni durante le vacanze scolastiche nel 1972. Il romanzo parte sicuramente da un’esperienza che ho fatto in Germania per alcuni anni da studente. L’aspetto autobiografico però si ferma lì, perché la storia è completamente inventata, più che altro la definirei verosimigliante come dovrebbe essere ogni storia che si racconta. Il racconto segue le regole di narrazione dosando bene le scene di commozione con quelle che fanno ridere e sorridere senza cadere nel bozzettistico, alternando denuncia e leggerezza, riso e commozione. Fondamentalmente è un romanzo di formazione. Lo stile è sicuramente fantiano con passaggi repentini dalla prima alla terza persona e l’uso frequente di soliloqui comici, o quanto meno farneticanti, come può essere spesso il mondo di un adolescente.
Cosa bolle in pentola? A oggi ho più o meno pronti altri quattro romanzi. I due “finiti” sono uno di fantapolitica, uno spaccato della società odierna, un occhio attento allo squallore dei politici odierna, con un finale che farà discutere tantissimo…sempre che trovi un editore coraggioso che me lo pubblichi. Ho poi pronto un romanzo su un rapporto mai decollato tra un padre e un figlio con sullo sfondo un fatto tragico che riguarda la comunità Jerzese, poi un romanzo ambientato in Albania subito dopo la caduta del regime e infine il “MIO” romanzo, o meglio, quello che penso sentirò più mio, una saga familiare che si svolge in Sardegna tra il 1870 e 1970, periodo del boom delle miniere e della relativa industrializzazione urbana, delle incursioni nella guerra di Spagna, delle spedizione Borsari in Argentina, delle cadute precipitose in Vaticano, Emilio Lussu, i sogni di un bambino nel periodo dello scudetto del Cagliari. Insomma una cavalcata a briglia sciolta che attraversa cento anni di storia della Sardegna, una Sardegna del birroncino, quella che penso sia la vera Sardegna non cittadina e non barbaricina. Nei miei romanzi non farò mai i conti con sequestri di persone latitanti e vendette, streghe. Capisco che è quello che vuole l’editoria nazionale ma penso che non riuscirò mai a scrivere niente di tutto ciò.
Quale forza la spinge a scrivere? Tutto quello che scrivo lo scrivo sostanzialmente per me, almeno inizialmente. La scrittura mi serve per elaborare avvenimenti che ho vissuto emotivamente. Poi dopo anni come i ruminanti li rimugino per letteralizzarli e costruirci una storia sopra. Ecco i miei romanzi nascono tutti così, è una scrittura di cuore. Penso che scriverò sempre dei grandi avvenimenti emotivi della vita, le cadute, le vittorie, la morte, l’ideale politico, l’amore idealizzato e l’amore fisico, l’aspirazione a migliorarsi nella vita. Da parte mia non ho paura a mettere in campo i miei sentimenti, ciò che provo col cuore, da questo punto di vista ho oramai perso il pudore, ecco perché la mia scrittura, a giudizio dei lettori ovviamente, emoziona parecchio.
Tra i suoi ammiratori, tanti sono ogliastrini, soprattutto jerzesi. Lei è nato a Ballao e vive a Iglesias. Da dove nasce il suo legame con l’Ogliastra e con Jerzu? Ho con Jerzu un rapporto totalizzante perché mi ha accolto in un momento drammatico della mia vita, quando a dodici anni in seguito alla scomparsa di mia madre e al fatto che mio padre lavorasse in Germania la mia famiglia si era totalmente dissolta. Tutti noi fratelli siamo cresciuti in collegio, chi da una parte chi da l’altro. Una zia di Jerzu si è presa cura di noi facendoci da padre e da madre salvando quel che restava della nostra famiglia. Mi piace sentirmi jerzese ( così come ballaese e iglesiente) anche se non conosco ancora nemmeno i nomi dei vicinati. Per me gli Jerzesi sono persone straordinarie, è straordinario il loro culto del lavoro, il contesto socio culturale vivissimo che li anima. Per otto anni ho addirittura giocato a calcio con il Picchi Jerzu, esperienza che ha rafforzato ulteriormente il legame con il paese. Chi come me ha dovuto vivere l’adolescenza senza nessuna certezza sotto i piedi, con il mondo che gli cambiava scenario ogni anno, con gli affetti che svanivano continuamente può capire. Puoi pure buttartele alle spalle queste esperienze ma sono fantasmi che ti vivono sempre a fianco e tornano a bussare alla tua anima. Per fortuna sono una persona totalmente positiva per cui oggi tutta quella, chiamiamola cosi “vivacità” esistenziale, l’ho incanalata dentro spazi letterari. Diciamo che la rielaborazione di tutti questi avvenimenti è stata quasi scontata, sempre chiaramente nel rispetto dei canoni di costruzione di un romanzo letterario.
Chi sono i suoi destinatari speciali? Nel romanzo la dedica è per zia Assunta la persona che come ho detto prima mi ha fatto da madre e da padre. Nel frattempo, dopo nove anni di battaglia con i tumori, meno di un anno fa è venuta a mancare a soli 52 anni appena compiuti, Rita, che mi era compagna da 37 anni, da quando eravamo ragazzini. Mi ha lasciato in eredità due splendidi ragazzi che sono il mio orgoglio. La dedica non può che essere per lei, donna speciale e totalmente iglesiente. Ciao Rita…
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Aspettiamo editori coraggiosi…
GRANDISSIMO MASSIMILIANO. SPERO CHE UN GIORNO LA CORSA SI FERMI, E POSSA REALIZZARE CON LA FILM COMMISSION DELLA SARDEGNA IL CORTO CINEMATOGRAFICO DI UNA FAMIGLIA ESULE DELLA SARDEGNA.