IN MOSTRA NEL CUORE DI MILANO I QUADERNI DI ANTONIO GRAMSCI SALVATI DALLA COGNATA TATIANA


di Sergio Portas

E finalmente ho potuto vederli i quaderni di Gramsci. Sono esposti qui, a Milano, sbucando dalla Galleria Vittorio Emanuele, che se ti volti si scorge ancora il Duomo, ancora più bianco del solito per tutta l’acqua che sta venendo giù questi giorni, la fila lunghissima e sospetto oramai perenne di turisti che cercano di entrarci, a destra palazzo Marino  che espone lo striscione giallo per Giulio Regeni, a sinistra la Scala, davanti quella che fino a poco tempo fa era la Comit, la banca commerciale italiana. Il palazzone che l’architetto Beltrami tirò su a inizio novecento per dare uniformità a tutta la piazza con al centro la statua di Leonardo. Per edificarlo fu demolita la chiesa barocca di San Giovanni decollato, da sempre luogo di sepoltura dei nobili condannati a morte. Insieme a palazzo Brentani e l’Anguissola Antona Traversi è diventato un grande e sfarzoso spazio espositivo in cui sono esposti i tesori artistici, centinaia, che la fondazione Cariplo e la banca Intesa hanno collezionato nel corso del loro operare. Magari Bertolt  Brecht esagerava un po’ nel far dire ai suoi personaggi che rapinare una banca era cosa da nulla a confronto di fondarla, e le migliaia di correntisti di banca Etruria e di Veneto banca che si sono visti scippare i risparmi sono persino più drastici di lui, comunque sia questo restituire alla collettività tutta una serie di ricchezze accumulate col risparmio  popolare di anni e anni, è una sorta di compensazione meritoria. Tra i Caravaggio, i Rubens, i Perugino e i Lotto ( “La bellezza ritrovata e altri 140 capolavori restaurati), in una sala riservata a destra dell’entrata due teche centrali raccolgono una quindicina dei trenta quaderni che Antonio, Nino Gramsci scrisse nel carcere dove il tribunale Speciale (speciale perché composto da: un presidente scelto fra i generali della milizia fascista, cinque membri scelti fra i “consoli” fascisti, il pubblico ministero magistrato dell’esercito) lo aveva condannato a più di vent’anni. Di poca salute com’era il regime carcerario avrebbe agito lentamente da boia.

A fare da quinta alle teche centrali due grandi tele di Guttuso, dove il colore rosso per bandiere e  camice di garibaldini occupa la maggior parte dei dipinti, uno racconta  degli scontri per prendere Palermo, l’eroe dei due mondi a cavallo con sciabola sguainata, l’altro è il celeberrimo sui funerali di Togliatti, tra la folla almeno cinque facce di Lenin ma anche una Di Gramsci in primo piano, tanti pugni chiusi a saluto. I quaderni sono quaderni di scuola che i bimbi italiani usavano nel ’25 per aste e addizioni.

C’è naturalmente quello a copertina nera classica, i bordi delle pagine rossi, gli altri picchettati come piastrelle di cucina sono di colori vari, mai sgargianti, sobri verrebbe da dire. Riempiti tutti da una grafia regolare, estremamente curata, con scarsissime correzioni, leggibilissima seppure a caratteri piccoli. Trattano di intellettuali, di Machiavelli, di Umanesimo e Rinascimento. Di letteratura popolare. Il ruolo di Cavour e dei democratici mazziniani nel Risorgimento italiano. Ma ci sono anche le traduzioni delle favole dei fratelli Grimm (forse per i figli della sorella Teresina, quella con cui andava più d’accordo). Il quinto scrive dei cattolici, del ruolo dei gesuiti nella Chiesa , con particolare interesse per l’Azione cattolica nel Risorgimento e la posizione del Vaticano nei confronti dello Stato italiano. L’immancabile ormai ma assai comodo nella sua fruibilità  formato digitale  consente di sfogliarli uno per uno. Che siano tornati nella banca che fu di Raffaele Mattioli è solo uno di quegli scherzi che il destino si diverte a mettere in scena. Ne avrebbe sorriso sicuramente Piero Sraffa, suo grande amico, come grande amico e “compagno” fu di Nino, e che ebbe grande parte nella intrigata storia che salvò gli scritti gramsciani dalla censura fascista. Sraffa, ebreo era figlio di Angelo, rettore dell’Università Cattolica di Milano, dove Mattioli era bibliotecario, ambedue avevano “fatto la guerra” e maturato la convinzione che si dovesse almeno tentare di colmare il fossato che separava le classi proletarie che avevano combattuto nelle trincee da quelle dirigenti che lì le avevano gettate. Piero incontrò Gramsci a Torino, Nino fondava L’Ordine Nuovo, Sraffa si laureava in economia con Einaudi, il destino lo avrebbe fatto presidente di Repubblica. Solo ultimamente, da quando cioè agli storici sono stati aperti archivi segreti che l’unione sovietica aveva tenuti gelosamente custoditi, la figura di Pietro Sraffa nella complessa vicenda della carcerazione di Antonio Gramsci ha preso a ingigantire, fino ad essere paragonata a quella di Tatiana Schucht, laTanja destinataria di tante lettere che Nino scrisse dal carcere, sorella della moglie Giulia e quindi sua cognata. Nel suo “Vita e pensieri di Antonio Gramsci”, Einaudi 2012, Giuseppe Vacca filtra la corrispondenza che Tatiana Schucht intraprese e con Gramsci e con Sraffa, mettendone in risalto il ruolo di vero e proprio “agente segreto” che lui ebbe nell’informazione puntuale che fornì ai capi del comunismo italiano in esilio a Mosca, segnatamente a Palmiro Togliatti. Poteva muoversi con un certo agio in Europa Sraffa, era finito a Cambridge dove erano allora le massime scuole di economia, si incontrò e ebbe esperienze di lavoro con John Maynard Keynes, di filosofia: fu per decenni amico intimo di Wittgenstein. Con lui ruppe i rapporti alquanto bruscamente ma ebbero insieme frequentazioni plurisettimanali, da qui le polemiche giornalistiche di questi giorni che si riferiscono a tratti specifici della filosofia di Wittgenstein , che seppur in maniera semplicistica dirò filosofo del linguaggio. Gramsci quando grazie a una borsa di studio riuscì ad iscriversi all’università di Torino, da quel grande cervello che era, si fece  notare anche da Matteo Bartoli, docente di linguistica, che lo voleva come assistente ( Cfr. Giancarlo Schirru: “Antonio Gramsci studente di linguistica”) e per anni ne seguì i corsi. E ne scrisse nei suoi famosi quaderni, segnatamente il numero 29, uno di quelli che vergò quando nel ’36 era oramai a fine vita, e Mussolini si risolse a consentirgli il ricovero nella clinica “Quisisana”. Come spesso gli accade qui Gramsci getta dei semi di pensiero prima inesplorato, dice in sostanza che il linguaggio come oggetto teorico autonomo, regolato dalla grammatica, non è soggetto autonomo, non si può scindere dalla coppia lingua-parlanti (insomma da due che comunicano nella loro lingua). I quali non sono meri esecutori di regole, ma parti costitutivi delle medesime, in quanto le trasformano in norme, e così facendo diventano il motore della grammatica. E’ possibile che Sraffa abbia potuto avere accesso alle 10 pagine del quaderno, lui era “solo” un grande economista, ed è altrettanto possibile che ne abbia parlato col suo amico filosofo. Fatto sta che  termini come “gioco linguistico”  e “forme di vita” sono alla base delle “Ricerche filosofiche” che Wittgenstein va elaborando in quegli anni, e queste definizioni risultano in perfetta sintonia con l’idea di Gramsci della non autonomia e della non strumentalità dell’universo delle parole. Franco Lo Piparo ci ha scritto un libro: “Il professor Gramsci e Wittgenstein”, il linguaggio e il potere, Saggine ed. 2014, e del resto nella prima edizione del ’38 delle Ricerche il filosofo scrive della “gratitudine che devo alla critica che P. Sraffa ha incessantemente esercitato sul mio pensiero”. Poi i due hanno litigato, e alla fine della sua vita Wittgenstein va ad insegnare in una scuola elementare in Scozia. Sraffa è rimasto vicino a Gramsci sempre, gli ha fornito ogni libro lui avesse richiesto, ha pagato i conti delle cliniche in cui è stato ricoverato. Tramite Tatiana e la fitta corrispondenza con lei che gli mandava le lettere del carcerato ha fatto da tramite tra Antonio e il partito comunista esule in Russia. Ha agito da perfetto “compagno”. Morirà nel 1983, dopo una vita tutta dedicata alla ricerca accademica, nel 1961 ebbe la medaglia Soderstrom della Reale Accademia di Svezia, un premio che di fatto anticipava il Nobel per l’economia, istituito solo nel 1969. Lauree “honoris causa” alla Sorbona e all’università di Madrid. Quando Gramsci muore è a lui che si rivolge Tatiana per poter salvare gli scritti dei Quaderni. E veniamo alle polemiche che vi dicevo, mi sono imbattuto anche io nell’articolo che Franco Lo Pipero ha scritto il 30 maggio sul “Corriere della sera”, in cui adombra l’idea che Mussolini lo abbia in realtà “trattato bene”: cella singola, possibilità di leggere e scrivere, che gli sia stato concesso di finire la sua vita, prima a Formia, poi “nella costosa clinica romana Quisisana”. “Frequentata dalla buona borghesia romana” (sic).  Lo Pipero si appassiona a questi particolari al punto da considerarli “capitolo fondamentale della storia d’Italia”. Faccio mie, integralmente le parole di Silvano Tagliagambe che non gliele manda a dire: “…continuo a pensare che la storia d’Italia debba fare i conti sopratutto con la crescente sottrazione degli spazi della politica, della democrazia e della cultura, dimostrata anche dal fatto che ci appassioniamo di quisquilie…anziché dai tanti e ben più gravi problemi che rischiano di minare alla base i principi della nostra convivenza sociale”.

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