LA CREATIVITA’ DI BONARIA MANCA, UN MISTERO D’ARTE DAL CUORE DELLA SARDEGNA

ph: Bonaria Manca


di Marzio Luras

Il filosofo greco Socrate parlava del dàimon come della misteriosa guida divina che lo assisteva in ogni sua decisione, una forma di ispirazione superiore che in realtà è la voce attraverso cui si esprime l’autentica natura dell’anima umana, la ritrovata coscienza di sé. Coscienza della quale Bonaria Manca si è definitivamente riappropriata, non senza stupore, all’età di quasi 60 anni, lasciando sgorgare in modo irrefrenabile e spontaneo la propria creatività: inizia infatti a dipingere in un modo personalissimo, a intonare canti dalle risonanze remote, a comporre racconti e poesie, a ricamare arazzi, a realizzare mosaici in pietra e a cucire vestiti eccentrici destinati a se stessa. Il tutto vissuto con una compenetrazione e un’urgenza di esprimersi tali da restituire un’immagine di sè avvolta da un impenetrabile mistero: “non ho mai pensato di avere delle qualità particolari – dice Bonaria – Ho fatto tutto senza sapere…”

Ma chi è Bonaria Manca? E’ una donna che, a 90 anni suonati, ha sentito il critico d’arte Vittorio Sgarbi dire che “il suo nome sarà presto ricordato a fianco a quello di Antonio Ligabue e di Pietro Ghizzardi, per una originalità che non può essere ricondotta a un genere, nel potente individualismo che manifesta con un’integra coscienza di ciò che ha vissuto e di ciò che ha visto”. Un riconoscimento che fotografa la realtà di un’artista fuori dal comune, oggetto da tempo di un vivo interesse da parte di collezionisti e musei, soprattutto del nord Europa. Un’artista che prima di essere tale è stata pastora, governando le greggi di pecore dal dorso del suo cavallo, un lavoro che, sfidando le convenzioni sociali, aveva già tentato di svolgere negli anni della sua giovinezza in Sardegna, ad Orune, piccolo borgo del Nuorese dove è nata e cresciuta, penultima di 13 figli. Tale scelta la portò però a scontrarsi col mondo patriarcale dei pastori, fatto di regole declinate solo al maschile.

Poi, nel 1950 la fuga con la madre e i fratelli verso il ”continente” per stroncare sul nascere una faida nata da una vicenda passionale che coinvolse un cugino. Bonaria approda così nella Tuscia, una regione storica del Lazio settentrionale che con i suoi aspri paesaggi e le sue testimonianze archeologiche etrusche le evoca la sua Sardegna. Furono anni di duro lavoro affrontati con fierezza ed orgoglio, finalmente libera di essere pastora infischiandosene delle occhiate sussiegose di chi la giudicava ‘strana’, ma anche anni di accostamento spontaneo alla pittura, che dal 1981 diventa anch’essa uno straordinario strumento di libertà, quella di narrare se stessa e il proprio mondo senza filtri. Un vissuto da donna controcorrente che nel 1968, a quarant’anni, Bonaria aveva provato ad accantonare decidendo di sposarsi, scelta che però non avrebbe tardato a scontrarsi con l’incapacità del marito (scomparso nel 1980) di accettare il suo naturale temperamento indipendente. Ma più che il naufragio del matrimonio, fu la morte – nel ’75 e nel ’78 – della madre e del fratello, a cui era legatissima, a fare da spartiacque nella sua vita e a lasciare che l’arte vi irrompesse in modo pieno e inesorabile nelle sue più diverse espressioni, diventando una sorta di antidoto contro la tristezza e la solitudine, e al tempo stesso consentendole di elaborare ricordi dolorosi, lutti e separazioni; un’arte che si rivela espressione di una creatività enigmatica non legata a tecniche acquisite o a forme di autodisciplina, ma che, rimasta inibita per lungo tempo, è riemersa con l’allentarsi delle pressioni del mondo esterno.

“Credo che fosse già tutto dentro di mema non riuscivo a esprimermi. C’era una cultura che voleva la donna sempre in casa, dove era lei a reggere ogni cosa…Quindi non è che non fosse valorizzata…Basta pensare che nei tempi più antichi le donne hanno anche governato…e c’erano anche le dee – osserva Bonaria, riconoscendo da un lato l’importanza del ruolo della donna nella Sardegna del passato, ma al tempo stesso ravvisando un limite in quella cultura che le aveva negato la libertà espressiva, riconquistata solo in età avanzata.

Dalle tavole e tele dipinte a olio alle pitture che ricoprono le pareti della sua casa di Tuscania (Viterbo), tutto diventa allora un mezzo per raccontare la natura e la vita vissuta nel microcosmo sardo di Orani, così come nella terra che la ospita ormai da tantissimi anni, ma anche per dar corpo ad un immaginario popolato di figure misteriose delle quali lei stessa mostra di sorprendersi, asserendo di non averle mai conosciute prima. Gli spazi del quotidiano si ricoprono infatti di colori dai toni accesi,con cui Bonaria tratteggia una Sardegna dal passato sconfinante a volte nel mito, fra enigmatiche divinità primitive, animali totemici e figure di re leggendari. E là dove non arriva la vernice ci sono i suoi arazzi, le cui trame intrecciano i loro fili con quelli della sua esistenza, come in quello appeso sulla parete della camera da letto che la vede bambina recarsi alla fonte per prendere l’acqua. Un’esistenza che a 90 anni dice di aver dimenticato, ma che in realtà riemerge, talora fortemente trasfigurata, nelle sue pitture così ricche di cromatismi.

Le linee dei suoi dipinti sono di una essenzialità sorprendente, ma la sua arte non può definirsi semplicemente naif senza sminuirne quel carattere di unicità che la rende difficilmente classificabile. Ha un che di archetipico, una sorta di arcaico simbolismo che sembra seguire le rotte più intime dei sogni e dell’inconscio per deflagrare alla fine in un messaggio universale di amore per la natura e per la vita.

LA CASA DEI SIMBOLI: UN PATRIMONIO CHE SARA’ CUSTODITO

Non è dunque un caso se la sua abitazione – un grande casale acquistato a Tuscania dalla famiglia nel 1965 – sia stata denominato La Casa dei Simboli. Una casa nel cui vasto podere Bonaria portava a pascolare le sue pecore e fra le cui mura ha cucinato, cucito, dipinto, senza mai interrompere il suo legame culturale con la Sardegna, terra che ha continuato a rivivere come in un sogno. In questa stessa casa fu scoperta come artista, alla fine degli anni ’80, dal cineasta e collezionista francese Jean- Marie Drot, allora direttore di Villa Medici, l’Accademia di Francia a Roma. Da allora diverse opere di Bonaria Manca hanno spiccato il volo verso musei e collezioni private esteri oppure sono diventate oggetto di mostre personali o collettive come l’ultima, “I pittori dal cuore sacro. Da Ivan Rabuzin a Bonaria Manca” (75 opere e 25 artisti da Italia e altri paesi), curata da Vittorio Sgarbi e Catia Monacelli, che fino al 6 gennaio scorso si è tenuta al museo di Gualdo Tadino (Perugia).

L’Associazione per Bonaria Manca, di cui fa parte sua nipote Paola Manca, si è battuta a lungo promuovendo incontri, dibattiti e proiezioni, affinchè quella casa potesse diventare un Casa-Museo secondo la volontà di Bonaria. Nella Casa dei Simboli, l’opera dell’artista sarda si mostra nei suoi tre filoni principali– quello religioso, il rapporto con la natura, la Sardegna e le sue origini e il mondo etrusco e i suoi archetipi – custodendo tantissimi dipinti realizzati nell’arco dell’ultimo quarantennio, compreso l’ultimo, del 2012, dedicato a Eleonora d’Arborea. Finalmente a dicembre 2015 si è appreso che la casa sarà restaurata e tutelata come studio d’artistaIl Ministero dei Beni Culturali ha infatti deciso che i suoi lavori sono un patrimonio da proteggere.

A parlare di Bonaria non c’è però solo la sua pittura ma anche alcuni preziosi taccuini che conserva con cura, e un libro, pubblicato a Roma nel 1982 a cura di Romeo Iurescia, dall’emblematico titoloComente perdichese spardinadasa (Come pernici sparpagliate), nel quale l’artista racconta dei suoi anni in Sardegna, dei cibi e delle usanze della sua terra, e raccoglie le immagini in bianco e nero di molti suoi dipinti che fanno da specchio alla narrazione. In tanti si sono occupati di lei citandola in libri d’arte o dedicandole documentari come quello realizzato per RAI3 dal prof. Massimo Ammaniti o quello del regista Luigi Simone Veneziano, prodotto da Marco Mottolese per VPR Produzioni, vincitore la scorsa estate del primo premio alla rassegna internazionale dell’ETuscia Green Movie Fest (a fondo pagina il video del trailer ufficiale de “L’isola di Bonaria”).

http://www.famedisud.it/

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2 commenti

  1. Sono un po’ allergica e diffidente dei ‘riconoscimenti’ ufficiali..dei critici d’arte …
    tranne nei rari casi in cui la critica sa essere creativa ( quasi una contraddizione )e penso che l’arte sia nutrimento di bellezza .sostanza della vita ..necessaria per tutti ..senza troppi intermediatori e la costrizione di schemi interpretativi ..cosi’come un cibo e’ ‘godimento’ dei sensi fatto di materia primitiva e rielaborazioni non artificiose ma dettate dalla fantasia e dalla necessita’ ..dall’ intrinseco e dal casuale o non spiegabile .
    Ma ..soprattutto mi piacciono ..e per me sono la salvezza del mondo ..coloro che realizzano la loro unicita’ e diversita’ .

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