di Francesca Virdis
«Ci accomodiamo qui? Sembra tranquillo». Lo dice a voce bassa. Il tono sempre garbato, insieme a quel modo speciale di muoversi nello spazio circostante, soppesando ogni passo, attenta a non urtare nulla e nessuno, tradiscono la sua storia un po’ prima che la sua volontà.
«Non mi sarei mai aspettata il successo che “Le Cose Migliori” mi ha portato. In effetti, non mi sarei mai aspettata il successo – ride la giovane, uno sguardo al suo libro appoggiato sul tavolo – ma d’altra parte ho imparato molto tempo fa che nella vita non si può mai sapere cosa sta per capitarti». Trentaquattro anni, precaria, laureata in Storia dell’Arte e da poco più di un anno scrittrice, con il romanzo d’esordio “Le Cose Migliori”, Valeria Pecora si è procurata i favori della critica, un discreto nugolo di lettori in tutta Italia, ma soprattutto una parentesi di pace col suo passato.
«Sono la figlia di una maestra di scuola materna e di un maresciallo dell’aereonautica militare. Ho vissuto un’infanzia magnifica, normale, tra i giochi di strada con i figli dei vicini e le vacanze al mare a venti chilometri da casa. Avevo sette anni quanto mia madre si ammalò di Parkinson: il suo corpo all’improvviso smise di ubbidirle, le sue gambe a farsi di cemento. Una mattina d’estate la lasciarono bloccata, su un marciapiede, impotente. Aveva appena 39 anni. Ma allora di Parkinson giovanile si sapeva ben poco e ora provo del rammarico se penso che, con i passi da gigante compiuti dalle terapie negli ultimi anni, mia madre avrebbe potuto vivere meglio il suo male. Invece la diagnosi arrivò solo alla fine degli anni ’90, dopo infiniti controlli specialistici, mentre la tristezza e il disappunto per la sua condizione riuscivano a prendere il sopravvento sul suo spirito». Decisa a trovare le sue “Cose Migliori” e impedire alla malattia di rovinare “ciò che c’era ancora di bello da fare e da vedere”, appena un anno fa Valeria risponde a una sicura vocazione di scrittrice riversando la sua storia e quella della sua famiglia in un libro, « anche se – confida, una mano impegnata a ravviare i suoi corti capelli – mi piace pensare che la mia passione per la scrittura si sia sviluppata soltanto in parte a causa del bisogno di esorcizzare il senso dell’abbandono e della solitudine, il sovvertimento del naturale rapporto che vorrebbe vedere i figli protetti dai genitori, e non viceversa, insieme a quella sensazione di essere, nei rari momenti di perfetta felicità, irriconoscenti, dimentichi o egoisti».
Pensa mai a che persona sarebbe diventata senza la malattia di sua madre? «Sì, spesso, senza venirne mai a capo. Ma se mi fosse concesso di tornare indietro e parlare alla me stessa di vent’anni, a quella ragazzina cresciuta troppo in fretta, piena di ansie e responsabilità, le direi ‘Vivi tranquilla, e non dimenticare di essere figlia, ma anche la donna che hai il diritto di diventare’. Mi ci è voluta letteralmente una vita per capirlo, e se mai qualunque figlio con un genitore malato o assente mi stesse leggendo in questo momento, mi sentirei di dirgli di non smettere mai di cercare la felicità e soprattutto i propri talenti, perché sono quelli che ti permetteranno di superare l’abisso. Ho imparato anche a essere forte, a mettermi da parte, a censurare emozioni che non potevo permettermi di provare perché c’era “lei”, la sua presenza in casa ridotta a un profumo: ora sui maglioni, ora sulla federa del cuscino. Sono soltanto una dei tanti figli che hanno indossato gli abiti ingrati degli orfani, pur avendo ancora entrambi i genitori».
Quali sono le sue Cose Migliori? «Il contatto con la natura, una chiacchierata con le mie due sorelle, il tempo speso insieme alle persone che amo, e scrivere. Sono convinta che anche al di là del dolore più profondo ci sia sempre qualcosa di buono per cui valga la pena lottare. Il libro è un inno alla vita, al coraggio di chi impara a rialzarsi dopo ogni caduta. Se mai dovessi avere una figlia, cosa che desidero fortemente, le insegnerò a non rinunciare mai ai colori del mondo e a non scordarsi che è solo all’alba che possiamo vedere “le cose migliori”».