Non bastava la crisi che sta bastonando il settore, non più protetto dalle tante odiate quote latte. Il mondo del lattiero-caseario a ridosso di Pasqua è stato investito dallo scandalo del latte contaminato dalla aflatossina M1. A Brescia ci sono 60 persone indagate. Ci sono produttori e allevatori che hanno visto, dalle loro analisi, che i livelli del fungo (potenzialmente cancerogeno quando metabolizzato nel latte) erano superiori ai limiti di legge, da 5 a 160 volte. E ci sono i caseifici che, da quanto sta emergendo, hanno comprato il latte contaminato con uno sconto del 75%, a 7-8 centesimi al litro, l’hanno allungato con latte buono in modo da riportarlo sotto i livelli di legge e poi hanno prodotto mozzarelle e ricotte, finite sulle tavole delle trattorie. Se avessero provato a realizzare dei formaggi a pasta dura, le forme sarebbero probabilmente esplose: uno degli effetti della tossina. Eppure qualcuno di questi ci ha provato.
Tra gli indagati ci sono alcuni dei produttori associati al Consorzio di tutela del Grana Padano. «Ho visto le carte delle indagini, perché ci siamo costituiti parte civile. Un paio di associati potrebbero essere stati consapevoli di aver comprato latte contaminato» dice Stefano Berni, direttore generale del Consorzio. Altri risultano indagati ma, aggiunge Berni, non dovrebbero essere stati consapevoli di aver comprato latte contaminato. «Chi, consapevolmente, non si è attenuto a queste regole – aggiunge – dovrà risponderne in Tribunale secondo le leggi vigenti e poi dovrà vedersela con il Consorzio Grana Padano sia per il danno di immagine che ha causato sia per i danni commerciali che ne dovessero derivare. Non sarà mai consentito a pochi furbetti di delegittimare un intero sistema fatto di migliaia di allevatori e centinaia di caseifici seri, coscienziosi e rispettosi di tutte le rigorose regole in essere».
Una richiesta di severità che arriva anche da Ettore Prandini, presidente di Coldiretti Lombardia. «Laddove emergesse che qualche allevatore o qualche trasformatore è responsabile – dichiara a Linkiesta – non dovrebbe essere solo sanzionato economicamente ma ritengo debba essere escluso dal Consorzio del Grana Padano, è un comportamento fuori da qualsiasi principio». I reati contestati sono quelli di adulterazione o contraffazione di sostanze alimentari e per qualcuno frode nell’esercizio del commercio.
I precedenti
Punire i produttori agricoli e i trasformatori che hanno fatto i furbi, isolare le poche mele marce, la linea è questa. Ma il caso ricorda da vicino quello che successe aParma nel 2013, con le indagini che furono rese note nel giugno del 2014 e chetirarono in mezzo anche il sistema dei controlli. In quel caso a far notizia era stato il sequestro di duemila forme di Parmigiano Reggiano e a finire indagati (e agli arresti domiciliari) furono tre allevatori e Sandro Sandri, direttore del Centro Servizi per l’Agroalimentare di Parma “Bizzozero”. Nel febbraio di quest’anno la Procura di Parma ha chiesto il rinvio a giudizio. Sandri avrebbe favorito gli imprenditori nell’ottenimento di certificazioni falsificate, assieme ad altre persone. Dopo un’indagine iniziale, condotta su 63 persone, la richiesta di rinvio a giudizio si è ristretta a 29 di esse, tra ex funzionari e tecnici del Centro Servizi, imprenditori agricoli e allevatori.
Anche in un caso di poco precedente c’erano finiti di mezzo allevatori, un consorzio di produttori ma anche i laboratori di analisi. Il consorzio era il Cospalat, in Friuli Venezia Giulia, il cui presidente, Renato Zampa, di Pagnacco, fu anche portato in carcere prima degli arresti domiciliari. Finì con il patteggiamento di 16 persone: al presidente fu applicata una pena di 1 anno, 5 mesi e 10 giorni di reclusione (sospesa con la condizionale). Tra chi patteggiò ci furono il socio accomandatario della società “Il laboratorio sas” di Udine e le due socie del laboratorio di analisi “Microlab snc” di Amaro. L’accusa dell’adulterazione o contraffazione di sostanze alimentari sparì, mentre sopravvisse quella dell’associazione per delinquere
Nello scandalo bresciano di questi giorni, ci sono state circa «trecento analisi “sballate” che nemmeno l’Istituto zooprofilattico di Lombardia e Emilia Romagna (ente pubblico, ma che può anche svolgere funzioni di laboratorio privato) e gli altri tre centri analisi accreditati in provincia hanno segnalato all’Asl». Invece, a segnalare il problema all’Asl sono stati la Centrale del Latte di Brescia e il gruppo Ambrosi, che hanno analizzato da sé il latte, rimandandolo ai produttori. All’Istituto zooprofilattico e altri centri accreditati le aziende hanno portato i campioni per fare le analisi di autocontrollo imposte dalla normativa. Quando dalle analisi sono risultati dei valori sballati, i laboratori avrebbero dovuto avvertire l’Asl? «Certamente, se un istituto zooprofilattico constata un qualunque parametro fuorilegge, deve segnalarlo ai Carabinieri», commenta Riccardo Quintili, direttore della rivista Il Test-Salvagente, che ha seguito il caso dall’origine. Non la pensa allo stesso modo Stefano Berni, del Consorzio Grana Padano: «Il laboratorio è tenuto a segnalare i valori su richiesta dell’Asl o di un caseificio, ma se un allevatore manda ad analizzare un campione, magari di una singola vacca, il laboratorio è tenuto alla riservatezza». provato a contattare per un commento l’Istituto zooprofilattico di Lombardia e Emilia Romagna nel pomeriggio di martedì 29 marzo, ma nessun responsabile era presente nell’ente. Per le autorità competenti, incluse le associazioni di categoria, il fatto che ciclicamente escano questi scandali è segno che i controlli funzionano. Oltre agli autocontrolli dei produttori, ci sono quelli delle Asl (a sorpresa, su disposizione delle Regioni) e dei Nas (in caso di sospetti specifici). Dal Consorzio Grana Padano fanno inoltre notare che i controlli previsti dal disciplinare avrebbero permesso di scoprire problemi anche dopo. «Il problema aflatossine – dice una nota – inizia con il latte di settembre e dei mesi successivi. Il primo formaggio prodotto da quel mese diventerà Grana Padano e potrà essere distribuito solo dal prossimo luglio in poi. Ovviamente ogni forma verrà verificata e, come del resto è sempre avvenuto e sta tuttora avvenendo, solamente il formaggio assolutamente sicuro andrà sul mercato, dalla prossima estate in poi». Contattato, l’altro grande consorzio di produzione di formaggio di qualità, quello del Parmigiano Reggiano, fa invece sapere che i controlli sull’aflatossina non avvengono nelle fasi successive della lavorazione ma sono considerati un pre-requisito nel disciplinare.
Le critiche ai controlli
È quindi tutto a posto nei controlli? «Non sposerei totalmente l’idea che i controlli funzionano – risponde Quintili de Il Test -. Il fatto stesso che gli inquirenti abbiano indagato 50 persone, di cui una parte compravano il latte a 8 centesimi e che conoscevano cos’era accaduto, è sicuramente segno che c’è un problema. Anche perché la presenza dell’aflattossina non era certo imprevedibile, dato che si manifesta dopo le estati calde».
Al di là del problema del sistema dell’autocontrollo, Coldiretti punta il dito contro i mancati esami su quanto arriva dall’estero. «Su mille camion che arrivano dall’Est Europa, solo due vengono controllati. Noi di quel latte non sappiamo niente», dice Ettore Prandini.
Conferma e rincara la dose il produttore di latte Piergiovanni Ferrarese, membro del Comitato di presidenza nazionale dei Giovani di Confagricoltura, secondo cui il problema parte dall’essicazione del mais. «Quando i produttori portano il mais da loro coltivato agli essicatori, quello che torna è tutto mischiato, magari con quello di chi non ha alcuna cura dei campi e non previene la proliferazione della farfalla piralide, che è responsabile dell’aflatossina», racconta. «Così un paio di anni fa mi sono ritrovato con del mais contaminato e ho dovuto trattare il latte come un rifiuto speciale». Uno degli effetti paradossali di questa promiscuità negli essiccatori è che gli allevatori finiscono per prendere mais certificato dall’estero. «E a quel punto è mais Ogm che, va detto, è più salutare di quello non-Ogm, perché il mais geneticamente modificato ha un fusto più resistente che rende difficile alla farfalla piralide depositare le uova nella pianta». La soluzione radicale al problema, sottolinea, sarebbe quella di una grande campagna contro la piralide portata avanti dalle Regioni; con accorgimenti come un’aratura più profonda e l’obbligo delle rotazioni dei campi la sua presenza diminuirebbe.
C’è però un altro aspetto che Ferrarese denuncia. «Dalle voci che girano, tra le aziende indagate risulterebbero anche dei grandi gruppi. Non mi stupirebbe, dato che ai gruppi industriali è concesso quello che vogliono». «Come produttori – aggiunge – siamo felici che il problema sia emerso, così i furbacchioni usciranno allo scoperto». Più in generale, per il rappresentante dei giovani di Confagricoltura, «per i produttori i controlli sono tantissimi, anche 12-13 a settimana, a costi assurdi e con visite che si sovrappongono tra più controllori. Gli stessi controlli mancano invece per i caseifici».
Come ricordato da un’inchiesta di Altroconsumo del maggio 2013, l’impatto sulla salute delle micotossine dipende dalla quantità assunta con gli alimenti e dalla loro tossicità. Ce ne sono circa 300 tipi diversi, ma sono una decina quelle più frequenti e le più tossiche per l’uomo. Le più pericolose sono le aflatossine, prodotte dal fungo Aspergillum, che l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) ha classificato come cancerogene. Quando, attraverso le mucche, passano dalle granaglie al latte, hanno un effetto è che è classificato come “potenzialmente cancerogeno”. Era riferendosi a tali sostanze naturali prodotte da alcune muffe che l’oncologo Umberto Veronesi aveva puntato qualche anno fa il dito contro gli effetti potenzialmente cancerogeni del consumo eccessivo di latte e polenta.