Venerdì 8 Aprile al Bif&st 2016 – Bari International Film Festival – sarà presentato in anteprima italiana assoluta nella sezione Italia FilmFest/Nuove Proposte “SENZA LASCIARE TRACCIA”, primo lungometraggio di Gianclaudio Cappai. Il film arriverà nelle sale a partire dal 14 aprile. Nel cast figurano Valentina Cervi, Vitaliano Trevisan, Elena Radonicich, Fabrizio Ferracane, Giordano De Plano, Aglaia Mora, Stefano Scherini, Giorgio Carminati e Luciano Curreli.
La storia. Ha cercato di dimenticare, ma del suo passato Bruno porta i segni sulla pelle e sotto pelle, nascosti tra le pieghe dell’anima e del corpo, come la malattia che lo consuma lentamente. Fino a quando Bruno non ha l’occasione di tornare nel luogo dove tutto è cominciato: una fornace ormai spenta divenuta rifugio di un uomo e della figlia. Nessuno dei due riconosce quell’intruso le cui intenzioni appaiono sempre più ambigue e sfuggenti. Per guarire Bruno deve trovare un colpevole, guardare in faccia l’origine del suo male. Cercare tracce, cancellarle, per tentare di fermare l’intruso che è in lui.
Il film tratta un argomento altamente drammatico e una storia lacerante. Di tutto questo lasciamo che a parlarne sia l’autore. “SENZA LASCIARE TRACCIA” è un film, spiega Gianclaudio Cappai, su un malessere che ha radici lontane. Il mio intento era mettere in scena lo strazio della memoria che riporta in vita il trauma e la necessità di un risarcimento, almeno psicologico, per provare a superare questo trauma. L’urgenza di questa dinamica si rileva a livello personale ma anche sociale: c’è sempre bisogno di un colpevole, di un capro espiatorio su cui riversare la violenza che scorre sotterranea sotto la superficie del nostro vivere “civile”, originata a sua volta da altra violenza, dall’ingiustizia o dall’improvviso erompere della morte, in una sorta di rito perpetuo che non riesce a trovare la sua catarsi. Il cancro che affligge Bruno, il protagonista, è appunto metafora di un male più oscuro, fisico ma anche mentale, che lo corrode lentamente e segretamente, e la cui origine viene spesso individuata, proprio da chi ne soffre, nella rabbia e la vendetta mal repressa, nel silenzio protratto e quindi nell’incapacità di rifuggire da una ferita sempre aperta. Tutti i personaggi di questa storia lottano per liberarsi da ciò che ha segnato per sempre la loro vita, per quanto abbiano cercato di dominarlo, di nasconderlo o di negarlo. Per questo sento l’anima di questa storia come un viaggio dentro la zona segreta che abita tutti noi, con cui si evita spesso di fare i conti, che si preferisce a volte non guardare pur sapendo che esiste. Lo sguardo del cinema, ontologicamente chiamato a rendere l’invisibile attraverso il visibile, permette più di qualsiasi altro di suggerire la presenza di questo altro, di questo mistero che abita sotto la superficie, dentro i corpi, accanto e oltre…”.
Gianclaudio Cappai, nato a Cagliari, presenta questa sua opera prima preceduto da significativi riconoscimenti nell’ambito del film breve. Ha già sviluppato attraverso la casa di produzione Hirafilm diversi progetti cinematografici, tra cui il pluripremiato cortometraggio “PURCHÉ LO SENTA SEPOLTO” (2006), vincitore del Torino Film Festival e finalista ai Nastri d’argento 2007. Nel 2009 ha presentato con successo alla 66ma Mostra d’arte cinematografica di Venezia il mediometraggio “SO CHE C’È UN UOMO”, lavoro di grande maturità espressiva e stilistica che lo segnala come uno dei più interessanti giovani registi del cinema italiano.
Ci parli di lei. Qual è stato il suo percorso artistico? Nei primi anni 2000 ho studiato a L’Aquila, all’Accademia internazionale dell’immagine, dove ho avuto l’onore di confrontarmi, tra gli altri, con docenti favolosi come Vittorio Storaro, Luigi Di Gianni, Sergio Bazzini. Poi ho iniziato un faticoso percorso ad ostacoli in cui spesso si rischiava di tornare malinconicamente al via, come nel gioco dell’oca. Soltanto grazie ai miei lavori degli ultimi anni, soprattutto “So che c’è un uomo”, le cose si sono assestate per il verso giusto anche se, va detto, il mio percorso artistico porta ancora attaccato il cartello “Work in progress”.
Come nasce “SENZA LASCIARE TRACCIA”? Produttivamente nasce come reazione, concreta e indipendente, a due progetti ambiziosi che sul punto di partire si sono arenati per colpa del solito procrastinare che ammorba diversi produttori cinematografici italiani. Il soggetto del film, invece, è nato durante un viaggio in cui una mia amica malata di cancro mi confidò come quella malattia fosse legata nella sua percezione ad un fatto traumatico della sua infanzia. Le chiesi di cosa si trattasse, ma lei non volle assolutamente rivelarmelo. L’origine e le conseguenze di quel fatto inenarrabile sono stati la scintilla che da lì in breve tempo mi ha portato a scrivere la sceneggiatura del film.
Quali sono le principali differenze tra un corto e un lungometraggio, oltre alla lunghezza? Tralasciando gli ovvi dislivelli produttivi e organizzativi, una delle differenze sostanziali è la gestione sulla lunga durata di una struttura, di una tensione narrativa e soprattutto di un capitale umano tecnico/artistico che non deve mai perdere di vista il “fil rouge” che il regista ha in mente …
Cosa può dirci riguardo al cast artistico e tecnico? Tutto il bene possibile, innanzitutto per i nomi che avevo a disposizione (Riondino, Cervi, Radonicich), nient’affatto scontati per un’opera d’esordio; però vorrei spezzare una lancia in favore di tre attori che pur avendo una parte secondaria in questo film, hanno tirato fuori delle cose splendide e significative. Mi riferisco a Stefano Scherini, Giordano De Plano e Fabrizio Ferracane. Sono stati grandi.
Ha dei ringraziamenti da fare? Questo film ha avuto purtroppo una gestazione lunghissima se non estenuante, e in più di un’occasione ho pensato sinceramente di lasciar perdere e mollare tutto. Ecco, vorrei ringraziare chi mi ha fermato giusto in tempo …
Quali sono i suoi registi preferiti? Qualcuno l’ha influenzata in modo particolare nella sua formazione? Spesso sono stati dei film, piuttosto che degli autori, a indirizzarmi o meglio a deviarmi in un certo modo; penso al “Il Silenzio” di Bergman oppure ad un film di Buñuel che non mi stancherei mai di rivedere: “I figli della violenza”. Ultimamente m’impressiona oltremodo qualsiasi cosa facciano Yorgos Lanthimos, Pablo Larrain e Bennett Miller.
Progetti per il futuro? Sto lavorando con lo scrittore Vitaliano Trevisan, co-protagonista di questo film, ad una trasposizione cinematografica tratta da un suo racconto, “Madre con cuscino”.