Roma 16 Marzo 1978: Via Fani, via Caetani: una data che segnerà per sempre la storia del nostro paese. Due vie che si incroceranno solo dopo 55 giorni. Tanto è la durata della prigionia del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro rapito dalle Brigate Rosse. Sono trascorsi trentotto anni dal suo ritrovamento dentro la R4 amaranto a metà strada dalle Botteghe oscure e da piazza del Gesù.
Gli eventi non hanno ancora superato il limite convenzionale che separa la cronaca dalla storia, con i lavori in corso di una commissione parlamentare d’inchiesta. I tribunali hanno detto l’ultima parola scrivendo le sentenze. I terroristi hanno in gran parte espiato le dure condanne nelle carceri speciali. Diversi maturando processi di dissociazione e di pentimento verso la riabilitazione. Il fatto nuovo: i percorsi di dialogo e riconciliazione tra i colpevoli e le vittime di una stagione tremenda di eccidi ed attentati, diretti al cuore dello Stato, sinistramente denominati gli anni di piombo
Andrea Coi 67 anni pensionato nato in un paese della provincia di Nuoro ricorda quegli anni: Torino e Milano dell’Italia operaia, l’università, la lotta politica, il Vietnam, il Sud America. Il dibattito che appassiona le aspirazioni dell’impegno politico ma che non intravvede altra via d’uscita sfociando nella disumanità e nella violenza. È Agnese Moro a ricordare un giorno qualunque di quel 16 marzo, che tale doveva essere. Venticinque anni pronta per andare al lavoro, sempre puntuale ma non quella mattina. Il padre invece sempre in ritardo ancora in bagno che si prepara. Si salutano dietro la porta, non pensando che sarebbe stata l’ultima volta. Aldo Moro iniziava la giornata andando a messa, nella borsa i compiti dei suoi allievi universitari. Ma “Non c’è niente da fare quando non si vuole aprire la porta” scriverà in una delle sue lettere dal covo prigione delle BR. Un pezzo di me, ha continuato la figlia dello statista, è legato a quel giorno, come un elastico carico di rabbia e dolore. Come il quadro l’Urlo di Munch, perché dietro ci sono altre persone che il soggetto in primo piano non può vedere. Spararono 91 proiettili contro i cinque uomini della scorta di Moro, il maresciallo Oreste Leonardi, i brigadieri Domenico Ricci e Francesco Zizzi, gli agenti di polizia Giulio Rivera e Raffaele Iozzino – il solo che riuscì a sparare due colpi inutili. Annientati in una manciata di secondi, nel corso di un’autentica operazione militare che lascia più di una perplessità. “Fare giustizia che non possa, e non debba, risolversi solamente nell’applicazione di una pena” è il convincimento di un atto riparatore, che prende a modello la Commissione per la verità e la riconciliazione nata nel Sudafrica del dopo apartheid. La convinzione che la pena non basta senza riconciliazione, la centralità del danno umano, l’ascolto attento che mette da parte l’impulso a voler avere tutto chiaro e la tentazione del giudizio. Così è accaduto che un consistente gruppo di vittime, dei loro familiari, di esponenti della lotta armata ha cominciato ad incontrarsi alla ricerca di una via della ricomposizione di una ferita che resta aperta. Fondamentale il ruolo dei mediatori: il padre gesuita Guido Bretagna, il criminologo Adolfo Ceretti e la giurista Claudia Mazzucato.</p<>
Nella memoria delle vittime resiste l’immagine dei familiari trucidati. Ma chi ha ucciso porta una ferita ancora più grande. L’incontro può diventare una via alla ricerca di una alternativa oltre il tormento. Da questa esperienza è nato il “libro dell’incontro” vittime e responsabili della lotta armata a confronto. Accolto inizialmente l’invito a partecipare all’incontro in un convento nel centro delle Alpi Marittime, con un certo scetticismo giusto il tempo di un giorno, vi è chi è rimasto ricredendosi per una settimana. L’invito al perdono concepito, senza essere imposto, come un dono che rovescia l’ostilità in una relazione di scambio.
Il preside Pino Tilocca introducendo l’incontro ha testimoniato il modo di fare scuola come risposta ad un’altra idea di società, contro la violenza dei toni, di civile convivenza, figlia del dialogo e dell’accoglienza. Nel pomeriggio sempre ad Oristano, si è svolto presso l’auditorium San Domenico, organizzato dall’Arcidiocesi arborense “Il coraggio del perdono al femminile” cinque donne: Eva Cannas sorella di Graziano e Serafino, Gina Chironi voce di una famiglia riconciliata, Anna Lucia Daga sorella di Luigi, Agnese Moro e Caterina Muntoni sorella di Don Graziano. E stata quest’ultima a ricordare la tragedia del fratello, semplicemente un prete con una marcia in più, l’ha definito contro i luoghi comuni evocati dai mass media. Si auspica una commissione di verità e riconciliazione anche in Italia, coinvolgendo Parlamento e istituzioni. L’incertezza è che i tempi non sono ancora maturi, forse è più funzionale la memoria di un conflitto latente, esasperato e del tutto irrisolto. Sicuramente questi due eventi distanti dal sensazionalismo, hanno scelto di ricomporre una ferita, profonda, testimonianza di incontro propizio. In piazza Aldo Moro con una semplice cerimonia il Comune ha scoperto una targa per i fatti di via Fani, che recita le parole di Martin Luther King: “Perché dovremmo amare i nostri nemici? In realtà rendere odio per odio moltiplica l’odio, aggiungendo più profonda oscurità ad una notte già priva di stelle. L’oscurità non può allontanare l’odio. Solo l’amore può farlo”. Nell’anno del Giubileo straordinario della Misericordia di Papa Francesco.