NON TIRATE LA CHIESA PER LA GIACCA! L’UTILIZZO DELLA LINGUA SARDA NELLA LITURGIA


di Salvatore Cubeddu

Si sa che i popoli del libro sono particolarmente litigiosi. Basta leggere della società israeliana. Basta seguire gli  ultimi decenni di discussione sulla lingua sarda.

E’ possibile, però,  individuare un percorso che, intanto, dia per condiviso l’accordo su alcuni importanti obiettivi, quali la promozione di ogni iniziativa che incrementi l’utilizzo della limba nella vita quotidiana e nel funzionamento delle istituzioni, la sua standardizzazione in funzione dell’utilizzo istituzionale-amministrativo ed il suo arricchimento letterario e comunicativo nei confronti delle altre lingue attraverso le quali noi sardi comunichiamo con il mondo.

Una premessa di questo tipo può servire a rapportarci alla presente discussione nata a seguito della continuità di alcune esperienze di preghiera e di celebrazioni liturgiche (novene, in gran parte) in lingua sarda. Cosa che, peraltro, avrebbe dovuto essere un fatto normale da molto tempo, non appena anche la Chiesa sarda aveva smesso l’utilizzo del latino, rispetto al quale la nostra risulta, peraltro, la lingua più vicina.

La Fondazione Sardinia da anni promuove incontri per approfondire il rapporto tra il modo tutto proprio con la quale i sardi vivono la propria fede cristiana e l’arricchimento che ad essa arriva dall’utilizzo della propria lingua.

In diversi incontri col clero circa novene e sante messe, da noi si è sempre insistito sulla necessità di una traduzione in lingua sarda come lingua nazionale del popolo sardo, anche per la sua valenza politica unitaria e identitaria. L’opinione di alcuni rappresentanti del clero, senza nessuna ufficialità, osserva la questione linguistica secondo una logica propria: la parola e l’ascolto dei testi sacri e della Santa Messa devono corrispondere alle parlate locali della lingua materna e, non potendosi fare trecentocinquanta traduzioni per ogni paese, si ricorre alle due varietà unificanti: il campidanese e il logudorese. Non riconoscendo alcuna lingua nazionale sarda unificata che ancora sia parlata e accettata da tutta la popolazione. In questa tesi, non c’è una preoccupazione politica bensì un intendimento e un obiettivo religioso. In fondo si estende alla comunità un tema che in tanti si pongono rispetto al sardo che si utilizza in famiglia.

Che si fa, allora? Si rinuncia alle occasioni, che si possono costruire con i vescovi ed i sacerdoti più sensibili, rinunciando all’esperienza religiosa che si arricchisce della liturgia celebrata attraverso una delle due varianti? Dobbiamo imporre in campo religioso le consapevolezze e le acquisizioni di una minoranza di militanti linguistici?

Certo, possiamo e dobbiamo farne argomento di un dibattito; ma senza le solite polemiche che avvelenerebbero il delicato rapporto che si sta portando avanti sul sardo nella liturgia.

Nella concretezza delle esperienze religiose in lingua sarda si danno due fatti nuovi: lo scopo, la preghiera e la comunicazione con Dio, risulta quello principale; l’utilizzo della nostra lingua serve/migliora/stimola quell’obiettivo.

Senza paura di smentite, credo che non possiamo non trovarci d’accordo che lo scopo della Chiesa, anche di quella che sta in Sardegna, non sia quello di risolvere l’importante  questione linguistica, ma quello di trovare il modo di ampliare la predicazione del Vangelo.

Alcuni credenti, che hanno sperimentato che l’utilizzo della lingua sarda nella preghiera, insieme ad una connaturata silenziosità, migliora il rapporto con l’Interlocutore della loro fede, chiedono alla Chiesa di cui fanno parte, di continuare, allargare, approfondire questo processo, insieme culturale e religioso. Si sa che, in una associazione ecclesiale complessa, ci sono responsabilità differenti, sensibilità e richieste persino contrastanti, strumenti e percorsi propedeutici da esperire. D’accordo, ci sono dei problemi. Ma questi non possono diventare alibi per restare paralizzati, come è successo per troppo tempo.

Alcuni tra noi, credenti e no, pongono il problema di “quale lingua sarda…”, “quale ortografia …” “quale unificazione …”. Si tratta di persone che su questi non facili quesiti lavorano da decenni, con risultati decisamente apprezzabili. In talune posizioni è esplicita la preoccupazione che, se la Chiesa sarda lavorasse su due varianti – metti il campidanese e il logudorese – ne potrebbe risultare mortificato l’impegno unificatore, si tratti di lingua sarda comune o di lingua di mesania. Nella realtà può non essere così: cosa vieta agli uffici della Regione di seguire il lavoro di traduzione dei testi biblici e liturgici fatti in quelle due versioni aggiungendovi la versione in lingua-standard da essa decisa? O, addirittura (se potessimo permettercene i lusso), con entrambe (LSC e mesania)? Ma  – e deve essere chiaro – è una questione delle istituzioni civili, ci riguarda in quanto cittadini, non tanto in quanto credenti o non credenti.

I problemi veri sono ancora due: primo, molti fattori spingono  nella direzione che i Sardi rinuncino (o/e si opera perché ci rinuncino) alla propria lingua; secondo, i Sardi stanno rinunciando alla fede cristiana, come testimoniano vari indicatori. Ci vuole intelligenza ed equilibrio nella ricerca di soluzioni ai due problemi, che solo in parte si intersecano. Bisogna essere limpidi nelle intenzioni, perché in questo campo le eventuali strumentalizzazioni durano poco e procurano danni.

Le due questioni si unificano allorchè si osservi che, tra le poche forme pubbliche di religiosità che resistono al procedere secolarizzante  della modernizzazione, soprattutto nei nostri paesi, ci sono quelle della  religiosità popolare. Queste parlano in sardo. Esse possono continuare e venire ri-attivizzate (oserei dire, se non temessi fraintendimenti, addirittura ri-evangelizzate) dicendole nelle forme del popolo che le ha create per comunicare con la divinità. In lingua sarda, appunto.

Tutto questo interessa alla Chiesa sarda? Ai vescovi ed al clero prima di tutti? Noi, e in tanti, li vorremmo disponibili a intraprendere con decisione e fiducia questo meraviglioso percorso.

Questo è importante e decisivo, per tutti. Anche per i militanti linguistici. E’ la Parola che cambia il mondo, in tutti i sensi. Non dobbiamo avere paure.

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