Un giorno qualunque, una solitudine, è il titolo del libro postumo di Vindice Satta edizioni Il Maestrale (Nuoro, dicembre 2014). Il volume contiene due raccolte poetiche che l’autore aveva affidato, nel lontano1983, un anno prima della sua morte, a Ugo Collu, curatore dell’opera. Insieme con le due raccolte, Collu aveva ricevuto anche un’altra silloge, la prima in ordine di composizione:Parole a una donna bella che fu pubblicata nel 1985. < Essa – dice Collu – conteneva anche il segreto della poesia negata il drammatico segreto che si era trascinato fino alla vecchiaia: la paura del Padre > Il padre di Vindice è Sebastiano Satta prestigioso avvocato del foro di Nuoro, poeta popolare, vate di Barbagia, considerato il più grande poeta sardo tra 800/900, morto quando l’autore aveva appena cinque anni. Questo libro esce dunque a trent’anni dalla prima pubblicazione, per volontà del figlio Massimo, e contiene una lunga introduzione critica del professor Maurizio Virdis dell’Università di Cagliari. Temi dominanti la poesia stessa e l’amore. Entrambe le raccolte aprono e chiudono con l’invocazione alla poesia: < …ho vissuto anni e cieli diversi e alterni,/in amore di poesia e in poesia d’amore >. Segue la speranza che la sua poesia tocchi il cuore di tutti anche di quelli che hanno <…cuori di pietra, o che …non hanno mai/ cantato al mattino/ e pregato a sera./Non voglio essere costretto/a vivere vicino a me stesso.>. Da qui prende l’avvio un discorso metapoetico che s’intreccia e talvolta si confonde con quello amoroso:< Di giorno in giorno,/ogni canto/mi avvicinava/al tuo silenzio.>. O < L’assiolo già dorme,/stanotte non ti ricordo:/tu fosti un canto. La fine del libro registra un annullamento totale nell’ideale poetico <: (Alla poesia) Ho corso ogni limite/ e mi sono perduto/seguendo la tua immagine/senza volto e senza nome.>
A una prima lettura si ha l’impressione di una poesia neoromantica con parole vaghe, indeterminate; parecchi sono i frammenti e i componimenti brevi che hanno il sapore dell’idillio nel senso che Leopardi aveva dato a questa forma poetica, di testi esprimenti situazioni, affezioni, avventure storiche del suo animo. Come nei Canti leopardiani, il poeta è presente nel testo, parla in prima persona, ricorda e ambienta in luoghi familiari, esprime una realtà immaginaria che appare più vera di quella reale e una tensione all’infinito: < La notte e il sogno/ fuggirono dalla finestra aperta./Al risveglio fui solo/nella luce grande./Dalla finestra aperta/un soffio di vento/disperse i limiti del focolare. >.
Quanto detto naturalmente non deve far pensare a una poesia tardo ottocentesca. No! La materia del canto appartiene al 900 con i temi dell’insicurezza del soggetto, del relativismo del pensiero e allo stesso tempo della ricerca di senso. Il dubbio insorge costantemente:< So che dubito, ma non importa./So che non vedo, ma so./Sapere è fine di conoscenza;…>.La verità sfugge o è controvertibile, la fede manca o è insufficiente a confortare:<…Non ho fede che basti, /temo la ragione./Sono vissuto in un ponte che non ha rive:/finirò in un fiume,/che non ha sorgente né foce>. In molte liriche è sviluppata la problematica del tempo e, come negli autori del secolo passato, anche in Vindice prevale il tempo non lineare, ma quello interiore e psicologico:< La mia vita ha cambiato volto:/corro senza muovermi/potrò giungere a te solo stando fermo./Quel giorno/non sarà più un giorno.> Secondo professor Virdis: < Vindice è Poeta della conoscenza metafisica…forse un poeta della linea montaliana, di chi subisce gli scorni di chi crede/che la realtà sia quella che si vede. > Sempre secondo Virdis la cifra del suo pensiero poetico si manifesterebbe nei seguenti versi:< In colore d’estate grande/salivamo il monte/alla fonte di Solotti/che vince il sole./Nel fondo verde della foresta/ smarrivamo i passi/dicendo cose che non sono/dicevamo il vero/. >.
Anche nell’amore si vive nell’incertezza, nel dubbio, nel non sapere: Senza però rinunciare all’amore idealizzato e assolutizzato: < Negli anni del trionfo/il sole era tuo e mio,/il respiro delle tue mani/ era eterno.// Nell’ombra di secoli interi, /in morte di anni e di trionfo, /il respiro delle tue mani/ è eterno. >
La donna nella poesia di Vindice Satta è sfuggente, disincarnata, mai rappresentata nella sua interezza. La metonimia è la figura che la esprime: essa è un passo, un respiro, un canto, i capelli, gli occhi, la poesia stessa. Forse è la fragilità del soggetto che non vede l’oggetto d’amore nella sua globalità o forse il processo di idealizzazione tende a dissolvere il corpo dell’amata. In una sola poesia compare il corpo, non spezzato, ma si tratta di un “miraggio” nella calura estiva: < Dello splendore torbido/del tuo corpo di femmina, del tuo ambrato volto di giovinezza, /ho un ricordo che nel tempo/è forse amore./…A sera nel ritorno, /tu non eri con la brocca stillante./ La fontana, il ruscello erano scomparsi. >
Il paesaggio è quello della Sardegna: la tanca, l’ovile con il pastore e le greggi, i prati, le montagne rocciose, il mare, gli oleandri, il mirto, il vento, ma è un paesaggio mitizzato, un palcoscenico dell’immaginazione e degli affetti ricreato da chi è ormai lontano e può solo tornare con il pensiero con la memoria anche dei suoi morti il cui lamento affiora ogni tanto anche nel discorso amoroso.